Stagione 2019-2020
Per favore non mordermi sul collo
Titolo originale: Dance of the Vampires
Regia: Roman Polanski
Soggetto: Roman Polanski, Gérard Brach
Sceneggiatura: Roman Polanski, Gérard Brach
Fotografia: Douglas Slocombe
Montaggio: Alastair McIntyre
Musiche: Krzysztof Komeda
Scenografia: Wilfred Shingleton, Fred Carter
Interpreti e personaggi: Jack MacGowran (Professor Abronsius), Ferdy Mayne (Conte Von Krolock), Roman Polanski (Alfred l'assistente), Alfie Bass (Shagal il locandiere), Sharon Tate (Sarah Shagal), Jessie Robins (Rebecca Shagal), Iain Quarrier (Herbert von Krolock), Terry Downes (Koukol il servo), Fiona Lewis (Magda la cameriera), Ronald Lacey (scemo del villaggio), Sydney Bromley (guidatore di slitta), Andreas Malandrinos (taglialegna), Otto Diamant (taglialegna), Matthew Walters (taglialegna)
Produzione: GB e USA, 1967
Durata: 107 min
Il professore Abronsius ed il suo assistente Alfred (Polanski) si recano in Transilvania per studiare il fenomeno del vampirismo, ma ...
Durante l’uscita del film precedente Cul-de-sac (1966), Polanski incontra Martin Ransohoff, (all’epoca già noto produttore americano) il quale acquista i diritti del film per la distribuzione negli Stati Uniti e con cui si accorda per realizzare, con la MGM, Per favore non mordermi sul collo. L’entusiasmo di Polanski di vivere questa prima esperienza con una casa di produzione così importante, cimentandosi in un film impensabile per l’Europa socialista, è talmente forte da mettere in secondo piano il prezzo da pagare: l’accordo prevede che Ransohoff possa intervenire (a pieno diritto) sul montaggio della pellicola, prima della sua distribuzione. Sarà la presenza, imposta dal produttore, di Sharon Tate per il ruolo di Sarah (a cui Polanski non era inizialmente d’accordo) a far dichiarare al regista, all’uscita del film, di essere un uomo felice e innamorato, distogliendolo in questo modo dalle modifiche finali della versione americana: dai venti minuti in meno di girato, all’animazione dei titoli di testa, passando per i personaggi ridoppiati.
Non ho mai voluto fare una parodia ma una commedia sul tema dei vampiri. La mia idea era il racconto di fiabe, vale a dire qualcosa che può fare paura ma è piacevole. E c'era anche l'avventura. I due (Abronsius e Alfred) vanno insieme, un po' nello spirito dei bambini. I due fanno parte dell'atmosfera che volevo rendere. Voi sapete, quel desiderio infantile di avere paura senza pericolo, di poter ridere della vostra paura. Un po', se si vuole, un viaggio, a Disneyland ... (R. Polanski)
Tabù
Titolo originale: A Story of the South Seas
Regia: Friedrich Wilhelm Murnau
Soggetto: Robert J. Flaherty, Friedrich Wilhelm Murnau, da un'idea di Robert J. Flaherty
Sceneggiatura: Robert J. Flaherty, Friedrich Wilhelm Murnau, Edgar G. Ulmer
Fotografia: Floyd Crosby
Montaggio: Arthur A. Brooks
Musiche: musiche originali Hugo Riesenfeld; musiche non originali da "Notturni" di Chopin e da "Ma vlast" di Bedrich Smetana
Interpreti e personaggi: Anna Chevalier (Reri, la ragazza), Matahi (il pescatore), Hitu (vecchio sacerdote), Jean (il poliziotto), Jules (il capitano), Ah Fong (commerciante cinese)
Produzione: USA, 1931
Durata: 87 min
Sull’isola di Bora Bora, un giovane pescatore (Matahi) si innamora della più bella ragazza del villaggio (Reri), scelta però come vergine consacrata, e quindi intoccabile. Scoperto però l’amore reciproco, i due decidono di ribellarsi e fuggire su un’isola vicina, ma l’integerrimo sacerdote (Hitu), deciso a far rispettare la volontà divina, parte alla loro ricerca.
Il film nasce dall'esigenza di Murnau e Flaherty di sottrarsi ai condizionamenti dell'industria cinematografica e di girare un'opera in piena libertà economica e creativa. Nonostante un accordo di base (rinuncia al sonoro e impiego esclusivo di attori non professionisti), durante i 18 mesi di lavorazione la drammatizzazione degli avvenimenti voluta da Murnau si dimostra irriducibile agli interessi etnologici di Flaherty e questi abbandona la troupe prima della fine delle riprese: la sua influenza è riscontrabile forse in alcune sequenze a carattere documentario, ma Tabu dev'essere considerato interamente opera di Murnau e costituisce la conclusione della sua vicenda esistenziale ed artistica.
Senza cadere nel folklore esotico, riprendendo suggestioni di Melville e il mito di Ero e Leandro nella versione ottocentesca ('Des Meeres und der Liebe Wellen' di F. Grillparzer), il film svolge un racconto tragico scandito sui temi dell'interdetto e della trasgressione, del desiderio e della morte: il desiderio, in conflitto coi rituali repressivi delle convenzioni socioculturali (di cui Hitu è incarnazione) e coi meccanismi alienanti del denaro (l'isola dei pescatori di perle), ne esce fatalmente sconfitto. La dialettica amore-destino, luce-ombra, superficie-profondo si regge su una serie di oggetti-simbolo (il fiore ibisco, la perla nera, la sagoma del pescecane, la lama del coltello, la sottile figura del sacerdote). L'esaltazione di Murnau per il plein air polinesiano e la bellezza dei corpi e degli atteggiamenti degli indigeni è filtrata attraverso un raffinato preziosismo chiaroscurale e una cultura figurativa memore di Gauguin e dello Jugendstil. (Enzo Capizzi da Dizionario del cinema americano)
L'anteprima è fissata per il 18 marzo 1931 a New York, ma Murnau non potrà parteciparvi: muore una settimana prima in un incidente d'auto a Santa Barbara. Al suo funerale parteciparono soltanto 11 persone, tra cui Greta Garbo, Robert J. Flaherty ed Emil Jannings, oltre a Fritz Lang, che pronuncerà l'orazione funebre.
La caduta della casa Usher
Titolo originale: La Chute de la Maison Usher
Regia: Jean Epstein
Aiuto regista: Luis Buñuel
Soggetto: Edgar Allan Poe (romanzo)
Sceneggiatura: Jean Epstein
Fotografia: Georges Lucas
Scenografia: Pierre Kéfer
Cineoperatore: Jean Lucas
Costumi: Fernand Osché
Direttore di scena: Maurice Morlot
Interpreti e personaggi: Jean Debucourt (Sir Roderick Usher), Marguerite Gance (Lady Madeleine Usher), Charles Lamy (Allan, l'ospite), Fournez-Goffard (dottore), Luc Dartagnan (domestico)
Produzione: Francia, 1928
Durata: 61 min
In casa Usher il proprietario dipinge il ritratto della moglie Madeline, ed è come se la donna vivesse nel quadro. Quando lei muore, il marito non vuole assolutamente che la sua bara venga sigillata, ma soltanto ricoperta con un sottilissimo velo. Una notte di tempesta però nel sepolcro la bara cade a terra, le candele si rovesciano dando fuoco alla casa e Madeline appare. Mentre le fiamme devastanti divorano tutto, nel quadro la figura femminile è misteriosamente scomparsa.
L'azione si svolge da qualche parte nella campagna inglese, abbastanza lontano da qualsiasi città, all'inizio del XIX secolo. Alla base c’è il racconto omonimo di Edgar Allan Poe che si fonde con un altro dello scrittore statunitense, "Il ritratto ovale".
La caduta della casa Usher privilegia l’elemento percettivo. Sospeso tra ciò che accade e ciò che viene visto soprattutto da Roderick e il suo amico. E si vede già dall’arrivo all’esterno della dimora. Con la presenza della nebbia e del vento. Elementi atmosferici e naturali che possono essere assorbiti anche sulla pelle. Con gli oggetti che si muovono, con l’uso del ralenti (per ottenerlo si usa una cinepresa ad alta velocità) che trasforma ogni immagine in un ipnosi provvisoria.
Siamo all'inizio del 1928, Epstein ha solo trent'anni ma ha ben presente che si trova ad una svolta della sua carriera.
La sua casa di produzione è quasi al fallimento, il cinema sonoro è alle porte, deve chiudere questa fase in maniera degna. Grazie anche al sostegno di Abel Gance, utilizza le sue ultime risorse finanziarie per realizzare quella che viene considerata una sinfonia cinematografica, l'ultimo suo film da indipendente prima di aprire un nuovo capitolo.
Il film viene girato tra febbraio e maggio del 1928, per gli esterni girati di notte si sceglie la zona della Sologne e la Bretagna. Gli interni, dove sono girate la maggior parte delle scene, sono costruiti negli studi Menchen et Eclair nel comune di Épinay-sur-Seine. Come assistente c'è per qualche settimana anche Luis Buñuel, ma Epstein lo congederà per divergenze di vedute. Alla première del film, il 4 ottobre 1928 allo Studio 28, presiede Abel Gance. Epstein è già a Ouessant (dipartimento di Finistère nella regione della Bretagna) dove sta preparando il nuovo film (Finis Terrae). Ha ormai girato pagina.
Ratataplan
Titolo originale: Ratataplan
Regia: Maurizio Nichetti
Soggetto: Maurizio Nichetti
Sceneggiatura: Maurizio Nichetti
Montaggio: Giancarlo Rossi
Fotografia: Mario Battistoni
Scenografia: Maria Pia Angelini
Costumi: Maria Pia Angelini
Musiche: Detto Mariano
Interpreti e personaggi: Maurizio Nichetti (Colombo), Angela Finocchiaro (la ragazza degli stracci), Edy Angelillo (la ragazza del robot), Lydia Biondi (la donna incinta), Roland Topor (il boss), Giorgio White (il segretario del boss), Giorgio Caldarelli (uno dei Quelli di Grock), Enrico Grazioli (uno dei Quelli di Grock), Heidi Hansen (uno dei Quelli di Grock), Claudio Intropido (uno dei Quelli di Grock), Maruska Mottlova (uno dei Quelli di Grock), Osvaldo Salvi (uno dei Quelli di Grock), Serena Sartori (uno dei Quelli di Grock), Dario Sereni (uno dei Quelli di Grock), Umberto Gallone (il professore di danza), Ione Greghi (la proprietaria del chiosco)
Produzione: Italia, 1979
Durata: 95 min
Un film (quasi) senza dialoghi. Solo immagini per raccontare la vita scombinata dell’Ingegner Colombo, giovane laureato dalle occupazioni precarie, diviso tra un chiosco di bibite arroccato sulla montagnetta di San Siro e una scalcinata compagnia teatrale (Quelli di Grock), sempre in fuga dal suo pubblico inferocito. Per fortuna l’amore trionferà in un magazzino di stracci dopo che il suo Robot Avatar va in tilt durante una serata in discoteca.
Opera prima del trentenne Nichetti, Ratataplan è una commedia che si stacca nettamente dalla produzione italiana del periodo: è un film che si richiama più o meno esplicitamente a illustri precedenti del cinema comico americano (Keaton e Chaplin, le cui foto vediamo appese ai muri della casa della compagnia "Quelli di grock"), e che si fa apprezzare per la semplicità, l'inventiva e le trovate. Manca una vera e propria storia: è un susseguirsi di episodi, concatenati l'uno all'altro come i tasselli di un puzzle, in una Milano alienata e alienante, simbolo delle difficoltà della vita di ogni giorno alle soglie dei difficili anni '80, un tempo di angustie e paure che il folletto Nichetti 'dissacra' allegramente, con l'imperturbabilità della marionetta muta alla quale affida le sue fortune di attore. (Alfredo Baldi)
Curiosità: la parte centrale del film, quella in cui vediamo all'opera la compagnia teatrale Quelli di Grock, fu girata (in 16mm con il nome di Magic Show) per intero da Nichetti nell'estate dell'anno precedente e fu mostrata al produttore Cristaldi come biglietto da visita. A questi piacque e si decise a finanziare il film (100 milioni di budget) a patto che venisse girato di lì a poco. Peccato che fosse inverno e Nichetti, per non creare discontinuità con le altre parti del film, fu costretto a rigirare tutte le scene.
Premi: 1980 - Nastro d'argento come miglior regista esordiente
Serafino
Regia: Pietro Germi
Soggetto: Alfredo Giannetti, Tullio Pinelli, Pietro Germi
Sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli, Pietro Germi
Fotografia: Aiace Parolin
Montaggio: Sergio Montanari
Scenografia: Carlo Egidi
Musiche: Carlo Rustichelli (diretta da Bruno Nicolai)
Scenografia: Carlo Egidi
Costumi: Angela Sammaciccia
Interpreti e personaggi: Adriano Celentano (Serafino), Ottavia Piccolo (Lidia), Saro Urzì (zio Agenore), Francesca Romana Coluzzi (Asmara), Amedeo Trilli (oste), Gino Santercole (caporale), Benjamin Lev (Armido), Giosue Ippolito (Rocco), Nazzareno Natale (Silio), Luciana Turina (zia), Oreste Palella (avvocato dell'accusa), Ermelinda De Felice (zia Armida), Gustavo D'Arpe (medico militare), Roberto De Silvestro (soldato), Piero Gerlini (brigadiere), Nerina Montagnani (zia Gesuina)
Produzione:Italia, 1968
Durata: 96 min
Serafino Fiorin, pastore un po' tonto ma dal cuore d'oro, ama le donne ed il vino. Un giorno diventa ricco e prima vogliono farlo interdire, poi costringerlo ad un matrimonio di interesse...
Pietro Germi recupera come un archeologo la forma della commedia rurale, del "neorealismo rosa", per iscrivervi il suo rifiuto convinto della società dei consumi, dell'urbanizzazione dilagante, della modernità. Questo ritorno ad un linguaggio e a un'ambientazione popolari a oltranza sembravano fatte apposta per provocare il rifiuto della critica e il favore del pubblico (che fu enorme): ma a quasi vent'anni di distanza sembrano emergere anche gli estremi di un'operazione più originale e inventiva di quanto potrebbe sembrare. Celentano è usato come pure elemento di movimento, come portatore sano di gaiezza e vitalità, da contrapporre alla società della proprietà e dell'autorità patriarcale o allo Stato della Legge, della codificazione forzata di costumi e ruoli sociali. Ma Serafino è anche, soprattutto nella seconda parte, pesantemente coinvolto nell'allegoria ideologica che fa del suo protagonista una sorta di eroe della polemica contro la famiglia tradizionale: in alternativa alla quale ne costruisce una che sembra una sorta di comunità pauperistica, evangelica, collettivistica, sulla quale, per fortuna Germi non evita di spargere spassionata ironia, pur lasciando capire che si tratta di una questione di second'ordine, visto che il problema della "sistemazione" di Serafino guida buona parte del film.
C'è una gravità ideologica, in Serafino, che è tutta concentrata nelle parti apologetiche (quelle in cui Germi ritorna all'uso retorico dei discorsi; in tribunale come in piazza) e che il film accusa senza capacità di dissimulare o di persuadere gli spettatori della loro validità; ma c'è anche una scelta originale di affrontare aspetti della cronaca o delle trasformazioni imponenti della cultura (siamo in un anno non qualunque: il '68), dal lato opposto a quello che in genere veniva privilegiato. Non gli studenti o gli intellettuali, ma il pastore, non le masse urbane ma il piccolo centro contadino. Germi, e certo non per entrare in competizione con un movimento del quale avrebbe detestato profondamente gli effetti, rovescia la prospettiva, muovendosi rigorosamente dal basso.
In un certo senso Serafino, col senno di poi, appare affrontare in modo eterodosso e originale quell'ossessione per la realizzazione della propria libertà o il terrore per il caos, la disumanizzazione, la repressione istituzionale e la violenza, che saranno tipici dell'immaginario del cinema italiano degli anni Settanta.
[tratto da Mario Sesti - Tutto il cinema di Pietro Germi]