Metacinema

Parole, parole, parole ...

Titolo originale: On connaît la chanson
Regia: Alain Resnais
Sceneggiatura: Jean-Pierre Bacri e Agnès Jaoui
Fotografia: Renato Berta
Montaggio: Hervé de Luze
Musiche: Bruno Fontaine
Scenografia: Jacques Saulnier e Philippe Turlure
Costumi: Jackie Budin
Interpreti e personaggi: Pierre Arditi (Claude), Sabine Azéma (Odile Lalande), Jean-Pierre Bacri (Nicolas), André Dussollier (Simon), Agnès Jaoui (Camille Lalande), Lambert Wilson (Marc Duveyrier), Jane Birkin (Jane, moglie di Nicolas)
Origine: Francia, Regno Unito, Svizzera
Anno: 1997
Durata: 120'
 
Simon ama segretamente Camille. Camille s'invaghisce, a causa di un malinteso, di Marc, affascinante agente immobiliare e capo di Simon, che cerca di vendere un appartamento a Odile, sorella di Camille. Odile ha deciso di acquistare l'appartamento nonostante la muta disapprovazione di suo marito, Claude ...
 
Fin dalla sequenza d'apertura - quella del generale tedesco, comandante in capo delle truppe germaniche di stanza a Parigi durante la seconda guerra mondiale, che riceve da Hitler l'ordine di distruggere la città e, affranto, dopo aver posato il telefono, intona, con voce femminile, la famosa canzone di Josephine Baker J'ai deux amours, mon Pays et Paris - non solo lo stile del film, ma il suo sottofondo ironico, appaiono in primo piano. O meglio, fin da subito Resnais mostra allo spettatore, al tempo stesso, il carattere del suo film e la dimensione ludica in cui vuole collocare storia e personaggi.
 
Lungometraggio n.17 del regista francese (classe 1922) al suo più grosso successo commerciale. Due milioni di spettatori in patria, 7 César, premio Louis Delluc per il miglior film dell'anno e Orso d'argento a Berlino '98. Nel caleidoscopio dell'amore, gli uomini e le donne s'inseguono, litigano, si riconciliano e, novità esilarante, cantano in playback incisi di trentasei canzoni francesi. Il tutto è anche merito della coppia d'attori e sceneggiatori Agnès Jaoui (Camille) e Jean-Pierre Bacri (Nicolas), già complici di Resnais "Smoking/No Smoking". 


 

Mon oncle d'Amérique

Titolo originale: Mon oncle d'Amérique
Regia: Alain Resnais
Soggetto: Trattato Di Henry Laborit
Sceneggiatura: Jean Gruault
Fotografia: Sacha Vierny
Montaggio: Albert Jurgenson
Musiche: Arié Dzierlatka
Costumi: Catherine Leterrier
Interpreti e personaggi: Gérard Depardieu (René Ragueneau), Nicole Garcia (Janine Garnier), Roger Pierre (Jean Le Gall), Nelly Borgeaud (Arlette Le Gall), Pierre Arditi (Zambeaux), Gérard Darrieu (Léon Veestrate), Philippe Laudenbach (Michel Aubert), Marie Dubois (Thérèse Ragueneay), Henri Laborit (se stesso)
Origine: Francia
Anno: 1980
Durata: 125'

“La sola ragione per esistere di ogni essere è l’esistenza”, sentenzia il biologo Henri Laborit in apertura di film. Jean è un funzionario della radio, Janine un’attrice di teatro, René un tecnico di un’azienda tessile: cittadini o provinciali, atei o credenti, benestanti o meno, ognuno con le sue debolezze e le sue meschinità, tutti cercano di affermarsi e tutti sognano l’aiuto di qualche zio d’America (Dio?) che risolva di colpo tutti i loro problemi. Ma in realtà le loro scelte sono solo apparenti e i loro comportamenti sono prevedibili come quelli dei topini di laboratorio (che in alcune scene prendono addirittura il posto dei personaggi): decidono quando lottare e quando fuggire in reazione a certi stimoli, se non possono evitare una punizione sfogano la propria aggressività sugli altri o su sé stessi. C’è una via di fuga da questo rigido determinismo? Resnais suggerisce uno spiraglio inserendo spezzoni con Danielle Darrieux, Jean Marais e Jean Gabin (rispettivi idoli cinematografici dei tre protagonisti) nei momenti clou: l’arte attenua i toni cupi della vita, offre la possibilità di rispecchiarsi nelle vicende altrui e di trovare una consolazione per i propri fallimenti.

Sceneggiato da Jean Gruault (collaboratore di fiducia di François Truffaut), “Mon oncle d’Amérique” ha ricevuto il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes del 1980.

La febbre dell'oro

Titolo originale: The Gold Rush
Regia: Charlie Chaplin
Soggetto: Charlie Chaplin
Sceneggiatura: Charlie Chaplin
Fotografia: Roland Totheroh
Musiche: Charlie Chaplin
Montaggio: Charlie Chaplin
Scenografia: Charles D. Hall
Interpreti e personaggi: Charlie Chaplin (il cercatore Charlot), Georgia Hale (Giorgia), Mack Swain (Giacomone), Tom Murray (Black Larson), Malcolm Waite (Jack Cameron), Henry Bergman (Hank Curtis), Betty Morrissey (un'amica di Georgia), Kay Desleys (un'amica di Georgia), Joan Lowell (un'amica di Georgia), Albert Austin (un cercatore), Allan Garcia (un cercatore), Tom Wood (un cercatore), Stanley Sanford (il barista), Daddy Taylor (il vecchio cercatore), Tiny Sandford (barman)
Origine: USA, 1925 muto - 1942 sonoro
Durata: 69'

 Un ingenuo cercatore d'oro combatte contro il gelo e si imbatte nel mondo degli avventurieri, animati dallo spirito di rivalsa che li spinge ad affrontare le avversità fisiche e climatiche del nord, in cerca di preziosi giacimenti. Il Nostro trova riparo in una capanna, dove incontra il fuggiasco Black Larsen che non vuole dividere il suo spazio vitale ma è costretto a farlo dall'intervento di Big Jim McKay. La fame costringe il gruppo a uscire dal rifugio: mentre Black si avventura, nella baracca viene cucinata una scarpa del protagonista, scambiato per un pollo dal compare ormai allucinato dagli stenti.

Luci della città

Titolo originale: City Lights
Regia: Charlie Chaplin
Soggetto: Charlie Chaplin
Sceneggiatura: Charlie Chaplin
Fotografia: Roland Totheroh, Gordon Pollock
Musiche: Charlie Chaplin, José Padilla
Montaggio: Charlie Chaplin
Scenografia: Charles D. Hall
Interpreti e personaggi: Charlie Chaplin (un vagabondo), Virginia Cherrill (una fioraia cieca), Harry Myers (un milionario eccentrico), Florence Lee (la nonna della fioraia), Allan Garcia (James, il maggiordomo), Hank Mann (un pugile), Henry Bergman (il sindaco)
Origine: USA, 1931
Durata: 89'

 

 

Charlot acquista una rosa da una giovane fioraia cieca che, per un equivoco, lo scambia per un milionario. Il vagabondo non puo' dimenticare la gentile immagine: errando una notte per la città, giunge alla sponda del fiume, dove un ricco signore disperato è sul punto di togliersi la vita. Il vagabondo lo distoglie dall'insano proposito e lo rincuora: i due diventano ottimi amici. Ma il milionario è tanto preso dai suoi affari e dai suoi piaceri che non ha tempo di pensare all'amico e un bel giorno parte per l'Europa. L'affetto, che lega il vagabondo alla cieca, si fa invece sempre piu' intenso. Un giorno la ragazza s'ammala e il vagabondo si piega a tutti i mestieri per poterle procurare il necessario. Finalmente ritorna il milionario che offre ospitalità al vagabondo e provvede alla cieca i mezzi necessari perchè si faccia operare. Alcuni parenti del milionario accusano di furto il vagabondo, che, benchè innocente, deve passare dei mesi in carcere. Nel frattempo la ragazza, che ha riacquistato la vista, ha aperto un bel negozio di fiori. Un giorno il vagabondo, uscito di carcere, si ferma dinanzi alla vetrina della fioraia. Questa gli va incontro e a un tratto riconosce in lui l'ignoto benefattore ...

"Luci della città" fu iniziato nel marzo 1928, proprio allorchè si era in piena rivoluzione del sonoro: Chaplin prese subito violentemente posizione contro. L'attore riteneva che il suono avrebbe ucciso il cinema, togliendogli la bellezza silenziosa della pantomima e snaturandone il contenuto. Inoltre sosteneva che la costruzione di caratteri convincenti non si poteva ottenere nel cinema attraverso le parole.
Chaplin "non aveva nulla contro il sonoro in sé. Quel che cercava di fare era conservare il silenzio di Charlot" (Griffith)
Impiega dieci anni per decidersi a usare la parola e la userà di fatto cancellando Charlot.

Il sottotitolo del film "Commedia romantica con pantomima", pone in rilievo il carattere nuovo dello sfondo dell'opera: la tumultuosa vita di una grande città, immaginata come un incrocio babelico di New York, Londra e Parigi. Le "luci della città" avrebbero dovuto illuminare la pietosa storia della fioraia cieca e del suo corteggiatore vagabondo.

Secondo alcuni critici con il personaggio del milionario allegro e prodigo da ubriaco e avaro e cinico da sobrio Chaplin avrebbe realizzato una geniale sintesi della società capitalista, nella sua essenziale ambivalenza di società dove tutto è concesso ma dalla quale nessuno è libero. Questa stessa idea di una società schizofrenica ugualmente allegra e cinica verrà ripresa dal drammaturgo Bertolt Brecht nella commedia Il signor Puntila e il suo servo Matti, nel personaggio del milionario signor Puntila. 

Vogliamo vivere!

Titolo originale: To Be or Not to Be
Regia: Ernst Lubitsch
Soggetto: Melchior Lengyel, Ernst Lubitsch
Sceneggiatura: Edwin Justus Mayer
Fotografia: Rudolph Matè
Musiche: Werner Richard Heymann
Montaggio: Dorothy Spencer
Scenografia: Julia Heron, Vincent Korda
Interpreti e personaggi: Carole Lombard (Maria Tura), Jack Benny (Josef Tura), Robert Stack (Tenente Stanislav Sobinsky), Felix Bressart (Greenberg), Lionel Atwill (Ravitch), Stanley Ridges (prof. Siletsky), Sig Ruman (Colonnello Erhardt), Tom Dugan (Bronski), Charles Halton (Dobosh - il produttore teatrale), George Lynn (attore), Henry Victor (Capitano Schultz), Alec Craig (contadino scozzese), Helmut Dantine (pilota tedesco), Maude Edburn (Anna, la cameriera di Maria Tura), Halliwell Hobbes (Generale Armstrong), Olaf Hytten (Polonio)
Origine: USA, 1941
Durata: 99'

Varsavia, 1939. La compagnia teatrale di Joseph Tura sta mettendo in scena uno spettacolo chiamato Gestapo quando i nazisti invadono la Polonia. La censura proibisce di allestire la farsa antinazista: non resta che rimettere in scena l’Amleto, cavallo di battaglia del primo attore Joseph Tura ...

Quando uscì per la prima volta nel marzo 1942, venne fortemente criticato dal pubblico, che non capiva com'era possibile prendere in giro e con tanta leggerezza una minaccia reale quale era il regime nazista. To Be or Not To Be è quel Gestapo che la censura ha proibito, Varsavia diviene un enorme teatro dove l'impossibile messa in scena di una farsa sul nazismo può finalmente avere luogo. Tura è un gigione, inabile a frenare la propria esuberanza, a misurare le proprie "indubbie" capacità. Sarà infatti una battuta sulle capacità di Tura a sollevare non poche riserve sul tono "leggero" del film e sul suo modo nient'affatto tradizionale di trattare un tema tanto rovente quanto quello del dramma generato dal nazismo: "l'ho veduto una volta – dice un colonnello tedesco – trattava Shakespeare come noi trattiamo la Polonia". Ne nacque un caso. A Lubitsch fu chiesto, da parte dei dirigenti di Hollywood, di eliminare questa battuta, ritenuta eccessiva, vista l'immane tragedia che si consumava in Europa e visto che, uscito il film, nel 1942, gli Stati Uniti si trovavano direttamente impegnati nel conflitto mondiale. Ma il regista non volle cedere: le critiche furono roventi, prima in America, dove il film uscì in piena guerra, poi nel vecchio continente dove fu visibile, ovviamente, solo a liberazione avvenuta. Lubitsch si difese anche pubblicamente, scrivendo una lettera al New York Times: "Riconosco – scrisse – di non aver fatto ricorso ai metodi che film, romanzi e tragedie utilizzano per dipingere il terrore nazista. Non ho fatto vedere camere di tortura, flagellazioni, nazisti sovraeccitati con la frusta. I miei nazisti sono diversi, hanno passato questo stadio. Le sevizie e le torture sono diventate la loro routine quotidiana".

Se qualcuno dice: "ho appena visto un film di Lubitsch dove c'era un'inquadratura inutile", costui mente. Il suo cinema è il contrario del vago, dell'impreciso, dell'inespresso, dell'incomunicabile, non ammette mai nessuna inquadratura decorativa, messa là per fare bella mostra: no, dall'inizio alla fine si è immersi nell'essenziale, fino al collo. Sulla carta una sceneggiatura di Lubitsch non esiste, nemmeno dopo la proiezione ha più alcun senso, tutto accade mentre si guarda il film. Un'ora dopo averlo visto, o forse rivisto per la sesta volta, vi sfido a raccontarmi la successione delle scene di "To Be or Not To Be": è matematicamente impossibile. Nella costruzione di “To be or not to be” – uno dei suoi indiscussi capolavori - Lubitsch passa in rassegna tutte le soluzioni disponibili per utilizzare quelle mai adottate prima, l’impensabile, l’enorme, il paradosso… (F. Truffaut)