L'amore vince sempre sull'odio...

L'amore vince sempre sull'odio però qualche volta pareggia

Gli outsider del noir: Fernando Di Leo e Jean-Pierre Melville

«Il numero uno del film poliziesco è Fernando di Leo, grande maestro del cinema noir», parola di Quentin Tarantino.
E se Tarantino definisce Di Leo un maestro altrettanto fa Di Leo con Melville che considera il suo modello tanto da affermare di poter analizzare a memoria, scomponendo inquadratura per inquadratura, tutte le opere del regista francese. «Potrebbe sembrare assurdo – dice Fernando – ma forse, senza Melville, io non avrei fatto cinema».
Li accumuna la passione per il noir americano ma entrambi forniscono una personale rilettura del genere.

Il cinema di Di Leo è sporco, vitale, colto, molto politico (nel suo bagno troneggiava la scritta: grazie Dio che mi hai fatto di sinistra). Nei suoi film si possono cogliere i temi della stretta attualità come la contestazione studentesca e le trasformazioni che si evidenziavano sul piano dei comportamenti sociali, specialmente da parte dei giovani e delle donne.

Fernando Di Leo

Di Leo nasce a San Ferdinando Di Puglia (FG) nel 1932. Sin da bambino mostra uno spiccato interesse per la letteratura, il cinema ed il teatro. E' promotore di iniziative culturali che spaziano dalla lettura del giornale ai contadini nelle campagne (il “giornale recitato”), all’organizzazione di cineforum e di spettacoli di teatro e cabaret.
Nella seconda metà degli anni ‘50 Fernando si è intanto trasferito a Roma dove affronta con poca voglia gli studi universitari: il mestiere esercitato dal padre e dal nonno sembrerebbe infatti destinarlo alla professione forense.
Si inscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia che però frequenta poco, giudicando “troppo lunga” la durata del corso di studi, rispetto a ciò che la scuola gli può insegnare. Divenuto amico del regista Duccio Tessari, viene da questi presentato a Sergio Leone e coinvolto nella sceneggiatura di quel gruppo di film che diedero il via al fenomeno del “western all’italiana”. E' sceneggiatore non accreditato di "Per un pugno di dollari" e "Per qualche dollaro in più". Grazie al lavoro su questi copioni, di Leo acquista una sua fama di sceneggiatore, nelle stagioni immediatamente successive saranno infatti una trentina le sceneggiature di genere western che egli svilupperà, con ricche variazioni sul tema e in maniera sempre originale.

Sul finire degli anni 60 passa alla regia dopo che nel 1963 aveva codiretto il film "Gli eroi di ieri... oggi... e domani..."
Il suo esordio è "Rose rosse per il fuhrer" del 1968. Del 1969 è "I ragazzi del massacro" che segna il suo primo incontro con la pagina di Scerbanenco a cui farà ritorno nei successivi "Milano calibro 9" e la "Mala ordina" che costituiscono con "Il boss" la cosidetta trilogia del milieu. Negli anni seguenti Di Leo dirigerà altri noir contaminandoli con la commedia ma i risultati non saranno gli stessi della trilogia. Di Leo ha anche diretto alcuni film erotici: "La seduzione" ed il cult "Avere vent'anni" che ebbe non pochi problemi con la censura per via soprattutto del finale (il film venne riproposto nelle sale con un finale diverso).

Via via riscoperto, ammirato e studiato, a partire dalla metà degli anni ‘90, da una nuova generazione di critici che gli riconoscono un ruolo importante nella storia del cinema italiano, Fernando di Leo trascorre gli ultimi anni di vita a Roma, dove si spegne dopo una breve malattia, il 2 dicembre del 2003, all’età di 71 anni. 

Jean-Pierre Melville

(Parigi, 20 ottobre 1917  – Parigi, 2 agosto 1973)

Jean-Pierre Grumbach diventa Melville durante la guerra, che lo vede tra le fila della resistenza francese, in onore del suo scrittore preferito. Sin da piccolo manifesta l'amore per il cinema convinto che quello dello spettatore sia il mestiere più bello del mondo. Ma guardare non gli basta, così passa dietro la macchina da presa dirigendo la trasposizione di un libro di culto nell’immediato dopoguerra, "Il silenzio del mare". Strappa a Vercors, l’autore del romanzo omonimo scritto nel 1942, il permesso di girare a casa sua e con una
troupe ridotta all’osso (tra cui figura un altro esordiente di lusso: Henri Decaë, il futuro direttore della fotografia della Nouvelle Vague) si reca a Villiers-sur-Morin e mette a soqquadro la casa dello scrittore. Ne esce, siamo nel 1947, un film in perfetto stile Nouvelle Vague ma con dieci anni di anticipo sugli esordi dei giovani turchi dei "Cahiers". Non è un caso che sia chiamato da Jean-Luc Godard ad interpretare il ruolo dello scrittore Parvulesco in "Fino all'ultimo respiro" (À bout de souffle). I successivi "I ragazzi terribili" (1950) e "Bob il giocatore" (1955) sono sempre film girati a basso costo.

In seguito Melville si distaccherà dalla corrente Nouvelle per passare al cinema spettacolare destinato ad un vasto pubblico. La svolta avviene nel 1961 con il film "Léon Morin, prete" interpretato da Jean-Paul Belmondo. Alla spettacolarità dell'immagine Melville accosta il rigore tanto da accostarlo al cinema di Bresson. Il rigore di Bresson è unanimemente riconosciuto di notevole importanza per le opere mature di Melville il quale sosteneva però "che era stato Bresson a melvillizzare il suo cinema più che il contrario".

I film di Melville principalmente sono focalizzati sul rigore dell'atteggiamento dei suoi eroi nel mondo, nei codici morali, empirici e rituali che danno significato alle loro azioni (e alla loro vita), codici fissati a tutti i caratteri centrali di Melville, gangster, assassini, ufficiali tedeschi, combattenti della resistenza, simpatizzanti comunisti, o preti.

Melvile muore improvvisamente il 2 agosto 1973 per una crisi cardiaca sopraggiunta durante una cena in un hotel di Parigi mentre stava lavorando alla sceneggiatura di un nuovo film.

Melville rimane un regista veramente anomalo, imparagonabile e per lungo tempo incompreso dalla critica sino alla sua riscoperta ad opera di quei registi, che cimentandosi nel genere "noir", hanno reso omaggio al suo cinema. A tal proposito basta rivedere il Michael Mann di "Heat - La sfida", il Takeshi Kitano di "Sonatine", il John Woo di "The Killer" o Jim Jarmusch con "Ghost Dog".

Milano Calibro 9

Regia: Fernando di Leo
Soggetto: dal racconto omonimo di Giorgio Scerbanenco
Sceneggiatura: Fernando di Leo
Fotografia: Franco Villa
Montaggio: Amedeo Giomini
Musica: Luis Enriquez Bacalov
Scenografia: Francesco Cuppini
Produzione: Italia, 1972
Durata: 101 minuti
Cast: Gastone Moschin (Ugo Piazza), Barbara Bouchet (Nelly Bordon), Mario Adorf (Rocco Musco), Philippe Leroy (Chino), Frank Wolff (commissario capo), Luigi Pistilli (vice commissario Mercuri), Ivo Garrani (don Vincenzo), Lionel Stander (l'Americano), Ernesto Colli (Alfredo), Mario Novelli (Pasquale Tallarico)

 

Un ex trafficante uscito di galera dopo tre anni di reclusione, viene perseguitato dagli uomini dell'Americano guidati dal tirapiedi Rocco. I gangster lo accusano di aver nascosto 300mila dollari che il boss gli aveva affidato  ....

Milano Calibro 9 è il primo capitolo della celebre Trilogia del Milieu, continuata da La mala ordina e conclusa con Il boss, nel corso della quale Fernando di Leo esplora i vari aspetti del mondo della criminalità organizzata. Il titolo del film è tratto da quello di un racconto di Giorgio Scerbanenco e sempre dallo scrittore russo derivano alcuni spunti di sceneggiatura, per esempio il pacco bomba alla stazione, derivato dal racconto Stazione centrale ammazzare subito.
Al di là degli spunti però, si può dire che Di Leo abbia costruito il proprio film in assoluta autonomia utilizzando la categoria del noir per un personale discorso sociologico, oltre che filosofico, sull’universo delinquenziale. Una visione diretta, secca, priva di orpelli ma straordinariamente acuta in grado di afferrare l’essenza antropologica degli individui, distinguendone i tipi e sottolineandone le psicologie, con un occhio sempre fisso alla società che produce i “delinquenti”.

La riuscita perfetta di Milano calibro 9 passa anche attraverso l’uso accorto degli attori, in particolare Gastone Moschin, che per la prima volta nella sua carriera si cimenta in un ruolo drammatico, Barbara Bouchet, nella cui bellezza il regista trovò riflessi di ferocia adatti al personaggio, Mario Adorf, artefice di una caratterizzazione memorabile nella parte del violento e sardonico Rocco Musco e Lionel Stander che inaugura la tradizione dei grandi interpreti hollywoodiani adottati da Di Leo nei propri noir. Ma vera protagonista del film è la città, Milano, che si affranca da una pura funzione di sfondo alla vicenda narrata diventando un centro nevralgico di lotte intestine tra la malavita e un ganglio di interessi economici sporchi.

Milano calibro 9, originariamente pensato con il titolo Da lunedì a lunedì, uscì nei cinema in una forma lievemente diversa da quella in cui è poi circolato nei supporti home-video, con la sovraimpressione di giorni e ore a scandire le varie fasi della storia e a dare il senso del procedere inesorabile del tempo.

Grandiosa colonna sonora di Luis Bacalov con gli Osanna.

Frank Costello faccia d'angelo

Titolo originale: Le Samouraï
Regia: Jean-Pierre Melville
Soggetto: dal romanzo The Ronin di Goan McLeod
Sceneggiatura: Jean-Pierre Melville
Scenografia: François de Lamothe
Fotografia: Henri Decaë
Musiche: François de Roubaix
Montaggio: Monique Bonnot, Yolande Maurette
Produttore: Eugène Lépicier
Cast: Alain Delon (Jef Costello), François Périer (l'ispettore), Nathalie Delon (Jane Lagrange), Cathy Rosier (Valérie), Jacques Leroy (il killer), Jeanne-Pierre Posier (Olivier Rey), Catherine Jourdan (la guardarobiera), Michel Boisrond (Wiener), Robert Favart    (il barista)
Origine: Francia/Italia, 1967
Durata: 107'

 

 

"Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella della tigre nella giungla"

Il film segna l'inizio della collaborazione tra Jean-Pierre Melville e Alain Delon, collaborazione che porterà alla realizzazione di I senza nome (1970) e Notte sulla città (1972).
Frank Constello, nell'originale il nome è Jef Costello, è un killer ingaggiato per uccidere il gestore di un night club. Dopo l'esecuzione sfugge alla cattura della polizia usando l'alibi perfetto che si è creato con l'aiuto della sua amante e grazie alla deposizione della pianista jazz del night che pur riconoscendolo non lo denuncia.

Jef Costello è un samurai contemporaneo, la traduzione italiana farà dire a Melville che i titolisti italiani sono dei "farabutti", che vive la propria solitudine seguendo le proprie regole con lucida normalità e distacco. Egli, come il suo uccellino, è un animale in gabbia braccato dalla polizia da una parte, e dai suoi "datori di lavoro" dall'altra, che esegue il proprio compito con freddezza e senza scrupoli, sempre però ligio alla propria morale. 

Da segnalare il contributo di Henri Decaë, direttore della fotografia ed esponente di spicco della Nouvelle vague.

Il boss

Regia: Fernando Di Leo
Soggetto: dal romanzo "Il mafioso" di Peter McCurtin
Sceneggiatura: Fernando Di Leo
Fotografia: Franco Villa
Musiche: Luis Enriquez Bacalov
Montaggio: Amedeo Giomini
Scenografia e Costumi: Francesco Cuppini
Interpreti e personaggi: Richard Conte (Don Corrasco), Henry Silva (Nick Lanzetta), Vittorio Caprioli (questore), Gianni Garko (commissario Torri), Pier Paolo Capponi (Cocchi), Antonia Santilli (Rina D'Aniello, figlia di Don Giuseppe), Claudio Nicastro (Don Giuseppe D'Aniello)
Origine: Italia, 1973
Durata: 97'

 

 

Di Leo sceglie una Palermo cupa e notturna per concludera la sua trilogia iniziata all'ombra della madonnina. Una guerra di mafia vede contrapposti due clan: da una parte la famiglia di Don D'Aniello, dall’altra quello che rimane di un grosso cartello criminale, sterminato dall’uomo di fiducia di Don D'Aniello, Lanzetta. Tra le fila del clan “perdente” a guidare la compagine, emerge un calabrese spietato, Cocchi, che organizza il rapimento della figlia del boss rivale. La situazione precipita e tra tradimenti, doppi giochi, manovre e interessamenti dei politici… in un finale assolutamente gattopardesco, nuovi equilibri vengono creati per assicurare la continuità del potere mafioso.

Di Leo si impegna nel voler sottolineare come il mondo politico sia collegato con quello della criminalità organizzata, senza lasciarsi scappare la ghiotta occasione di rappresentare anche la corruzione all’interno delle forze di polizia.

Del film ne fu chiesto il sequestro e la distruzione della pellicola dopo che un politico presentò una querela per diffamazione, in quanto sosteneva che in una scena del film  (nella quale si faceva riferimento a una serie di nomi di mafiosi) veniva fatto il suo nome, insieme a quelli di Tommaso Buscetta e Salvo Lima. La denuncia venne poi ritirata segnando un punto di gloria in più per un autore come Fernando di Leo che della coerenza con le proprie idee e del realismo faceva una scelta di vita, prima che di cinema.

I senza nome

Titolo originale: Le cercle rouge
Regia: Jean-Pierre Melville
Soggetto: Jean-Pierre Melville
Sceneggiatura: Jean-Pierre Melville
Fotografia: Henri Decaë
Musiche: Eric Demarsan, Jimmy Webb
Montaggio: Monique Bonnot, Yolande Maurette
Scenografia: Théobald Meurisse, Pierre Charron
Costumi: Colette Baudot
Produttore: Robert Dorfmann, Jacques Dorfmann
Interpreti e personaggi: Alain Delon (Corey), Gian Maria Volontè (Vogel), Yves Montand (Jansen), Bourvil (Il Commissario Mattèi), Paul Crauchet (Il Ricettatore), Paul Amiot (Capo della Polizia), Pierre Collet (Il Guardiano della Prigione), François Périer (Santi)
Origine: Francia/Italia, 1970
Durata: 124' (Edizione italiana, 150' nell'edizione francese)

 

Buddha prese un pezzo di gesso rosso, tracciò un cerchio e disse:
se è scritto che due uomini, anche se non si conoscono, debbono un giorno incontrarsi, può accadere qualsiasi cosa e possono seguire strade diverse. Ma il giorno stabilito, ineluttabilmente, si ritroveranno in questo... cerchio rosso

Durante un trasferimento in treno da Marsiglia a Parigi, il detenuto Vogel riesce a fuggire eludendo la sorveglianza del commissario Mattèi. Contemporaneamente Corey, appena uscito dal carcere, è in viaggio verso Parigi e si ferma in un autogrill dove incontra Vogel in fuga. Arrivati a Parigi, Corey invita Vogel a unirsi a lui in un colpo; ai due si aggiunge un tiratore scelto, Jansen, ex poliziotto radiato dal corpo per alcolismo. Intanto il commissario Mattèi non molla la presa ed è sulle tracce dell'evaso ...

Dodicesimo e penultimo lungometraggio di Jean-Pierre Melville, I senza nome (il titolo italiano si riferisce al fatto che i personaggi si chiamano soltanto per cognome) è uno dei più grandi successi del cinema francese. Il cast non è quello che lui vorrebbe (al posto di Bourvil doveva esserci Lino Ventura, la parte assegnata a Volonté doveva andare a Jean-Paul Belmondo), il film fu girato fra molte difficoltà in un clima non proprio sereno a causa dei contrasti fra Melville e la troupe a cui si aggiunse l'antipatia viscerale tra Melville (uomo di destra) ed un "gauchiste" militante come Gian Maria Volonté.

Il film è un western, la cui azione, per forza di cose, si svolge a Parigi invece che nel West, una Parigi - spiega Melville - dove "le automobili hanno preso il posto dei cavalli". Le tematiche classiche di Melville - la solitudine, l’amicizia virile, il coraggio, il tradimento, la colpa, la Morte, il fatalismo -  ci sono tutte in questo film che rappresenta la summa del suo stile.