Ombre

Titolo originale: Shadows
Regia: John Cassavetes
Soggetto e Sceneggiatura: John Cassavetes
Fotografia: Erich Kollmar
Montaggio: Len Appelson, Maurice McEndree
Musiche: Charles Mingus (assolo al sax di Shafi Hadi), canzoni di Jack Ackerman, Hunt Stevens e Eleanor Winters
Scenografia: Randy Liles e Bob Reeh
Interpreti e personaggi: Lelia Goldoni (Lelia), Ben Carruthers (Ben), Hugh Hurd (Hugh), Anthony Ray (Tony), Rupert Crosse (Rupert), Tom Reese (Tom) Dennis Sallas (Dennis), David Jones (Davey), David Pokitillow (David)
Produzione: USA, 1959
Durata: 79 min

 

 

Manhattan, anni '50. Hugh, Leila e Ben sono tre fratelli afroamericani. Hugh, il maggiore, di pelle nera è un cantante di night club in declino. Ben, il fratello minore, e Lelia, la sorella, hanno probabilmente un poco di sangue bianco e per bianchi possono essere scambiati. Ben, ragazzo sbandato, aspira a suonare la tromba ma impiega la maggior parte del tempo a girovaghare con gli amici per la città. Leila ha aspirazioni superiori frequentando circoli intellettuali, ma dopo un sfortunata avventura con un bianco accetta la corte di un ragazzo dalla pelle nera.

La genesi e la storia del film Shadow iniziano nel 1957, allorche’ il giovane John Cassavetes fu chiamato alla Radio a fare da testimonial in una trasmissione notturna per pochi nottambuli ad un film che aveva appena finito di girare come attore (il titolo italiano del film è “Nel fango della periferia”). In quella occasione Cassavetes si dimentica (o fa finta di dimenticare) ben presto i sui obblighi promozionali e utilizza lo spazio e il tempo concessigli per lanciare un appello: “«Pensate a quanto sarebbe bello», dice agli ascoltatori, «se a fare film fosse la gente qualunque, e non quei parrucconi di Hollywood che pensano solo al business». E aggiunge: «Volete un i film che parli di cose vere, di gente vera? Non avete che da mandarmi i soldi perché ve lo faccia io». La colletta frutterà duemila dollari. Ce ne sarebbero voluti molti altri per produrre e girare Shadow, ma ormai la pista era stata aperta. Esplicitamente Cassavetes aveva criticato Hollywood coi suoi “parrucconi” ed aveva indicato il suo ideale di cinema, che dovra’ parlare di gente vera, della vita, della realta’ quotidiana.

Girato con uno stile jazzistico, con dialoghi e scene improvvisate (il film si chiude con la scritta: «The film you have just seen was an improvisation»), la pellicola tratta il tema delle relazioni interrazziali negli anni della Beat Generation a New York. Cassavetes girò il film due volte, una prima volta nel 1957 e di nuovo nel 1959. La seconda versione era quella preferita dal regista; la prima versione fu comunque proiettata, ma si persero poi le tracce dell'unica copia originale, che per decenni fu creduta persa o distrutta. Nel 2004, dopo anni di ricerche, Ray Carney, professore della Boston University e studioso di Cassavetes, la ritrovò in una scatola abbandonata in metropolitana, insieme ad altri oggetti smarriti con cui era probabilmente stata acquistata.

Self-Portrait in Three Colors è il titolo che Mingus - negro di pelle chiara che nella delirante autobiografia "Beneath the Underdog" ("Peggio di un bastardo") si è raccontato schizzofrenicamente come "un uomo in tre" - ha dato alla breve suite ricavata dal commento al film (invero sconfessato a posteriori ). E sono tre le sfumature della pelle dei fratelli di Ombre, digradanti da quella nerissima di Hugh (Hugh Hurd) a quella piuttosto chiara di Ben (Ben Carruthers) a quella quasi bianca di Lelia (Lelia Goldoni): le tre maschere di un paradosso scenico che li vuole - come in una rediviva Commedia dell'Arte - coinvolti in un indifferenziato scambio delle parti con gli amici, bianchi e meri, fino all'agnizione finale. Il film risulta marcato proprio da questo continuo sfaccettarsi delle apparenze (le ombre), dal poliedrico strutturarsi di un collettivo assai eterogeneo, il cui composito crogiuolo vuol essere l'emblema stesso della precarietà. In esso confluiscono, mescolandosi tra loro, le esperienze e le culture di un coro di personaggi accomunati dal caso e dalle contingenze di una gioventù senza costrutto ("assurda", fu definita), spesa preferibilmente lungo un brandello di Manhattan, dal capolinea del Port Authority Bus a Central Park. Convegni nei bar, vagabondaggi, festicciole, chiacchiere: questi i riscontri evenemenziali di giornate balorde che aggregano in una disinvolta promiscuità, al di là del referente razziale, le sparse propaggini di una generazione disorientata. II plot del dramma familiare di Hugh-Ben-Lelia in fondo una meditatíon on integration, per usare un famoso titolo di Mingus - risulta comunque subordinato all'idea più generale di esporre cronachisticamente uno spaccato dell'alienazione giovanile, attraverso lo scrutinio dei comportamenti individuali-collettivi e la polifonia di voci-volti in evoluzione: una geografia dello spaesamento, un'anatomia della parcellizzazíone sociale. La stessa famiglia composta da Hugh-Ben-Lelia non è un nucleo compatto: i tre fratelli non hanno solo pelle differente, ma esperienze differenti e l'occhio di Cassavetes segue il loro dipanarsi lungo i labimti della città fino ad individuare un possibile punto di convergenza nell'appartamento in cui vivono da diversi, se non da estranei. Ma anch'esso si apre alle intrusioni esterne, al pullulare delle voci altrui al debordare dell'inferno circostante, si satura del frastuono in agguato, e diventa talvolta palcoscenico grottesco, circo stravagante. Già da Ombre è a questa decantazione finale che tendono i sedimenti drammatici cassavetesiani, anche se non è ancora elaborata appieno l'estetica della "carnevalizzazione", databile a partire da Faces.
Sergio Arecco, Cassavates, Il Castoro Cinema, ottobre 1980