Stagione 2021-2022
Noi credevamo
Regia: Mario Martone
Soggetto: Anna Banti (omonimo romanzo)
Sceneggiatura: Giancarlo De Cataldo, Mario Martone
Montaggio: Jacopo Quadri
Fotografia: Renato Berta
Scenografia: Emita Frigato
Costumi: Ursula Patzak
Musiche: Hubert Westkemper
Trucco: Vittorio Sodano
Interpreti e personaggi: Luigi Lo Cascio (Domenico Lopresti), Valerio Binasco (Angelo Cammarota), Francesca Inaudi (Cristina di Belgiojoso da giovane), Luigi Pisani (Salvatore Tambasco), Andrea Bosca (Angelo da giovane), Edoardo Natoli (Domenico da giovane), Guido Caprino (Felice Orsini), Renato Carpentieri (Carlo Poerio), Michele Riondino (Saverio Tambasco), Peppino Mazzotta (don Carmine Lopresti), Stefano Cassetti (Carlo Di Rudio), Franco Ravera (Antonio Gomez), Andrea Renzi (Sigismondo Castromediano), Ivan Franek (Simon Bernard), Roberto De Francesco (Ludovico), Toni Servillo (Giuseppe Mazzini), Luca Barbareschi (Antonio Gallenga), Fiona Shaw (Emilie Ashurst), Luca Zingaretti (Francesco Crispi), Anna Bonaiuto (Cristina di Belgiojoso), Edoardo Winspeare (Nicola Nisco), Pino Calabrese (maresciallo del carretto), Giovanni Calcagno (attore della Vicaria), Salvatore Cantalupo (Pasquale Vuoso), Giovanni Capalbo (capo dei carcerati), Beppe Chierici (Monsieur Hebert), Paolo Civati (volontario garibaldino), Romuald Andrzej Klos (Stanislaw Worcell), Pierre Lucat (lettore della sentenza), Enzo Salomone (marchese Pica), Alfonso Santagata (Saverio 'o Trappetaro), Cesare Maffia (brigante)
Produzione: Italia, Francia 2010
Durata: 205 min
Domenico, Salvatore e Angelo, tre ragazzi del Sud Italia testimoni della feroce repressione borbonica dei moti del 1828, decidono di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Le loro esistenze, sospese tra rigore morale e pulsione omicida, spirito di sacrificio e paura, carcere e clandestinità, slanci ideali e disillusioni politiche, si svolgeranno sullo sfondo della più sconosciuta storia dell'Unità d'Italia e verranno segnate tragicamente dalla loro missione di cospiratori e rivoluzionari.
Dopo l'11 settembre, riflettendo sul rapporto fisiologico tra terrorismo e lotta per l'indipendenza nazionale, mi chiedevo: com'è possibile che il nostro Paese, che ha così a lungo lottato per la sua indipendenza, non abbia conosciuto niente del genere? "Noi credevamo" è nato nel tentativo di dare risposte a questa domanda iniziale: poi è cominciato il viaggio dentro la storia italiana dell'ottocento. Un viaggio rivelatore, in cui mi sono reso conto che sono esistiti due Risorgimenti, completamente contrapposti, poiché l'idea repubblicana era nemica giurata dell'opzione monarchica. Questa divisione si è riproposta in tutte le forme che la nostra storia successiva ha conosciuto, passando ovviamente dal fascismo e dall'antifascismo e arrivando fino ai nostri giorni. Un'idea d'Italia monarchica e autoritaria da un lato, e un'idea d'Italia repubblicana e democratica dall'altro. Una contrapposizione mai sanata e già presentissima alla nascita del Paese.
Mario Martone
Il Gattopardo
Regia: Luchino Visconti
Soggetto: Giuseppe Tomasi di Lampedusa (dal romanzo)
Sceneggiatura: Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa, Luchino Visconti
Montaggio: Mario Serandrei
Fotografia: Giuseppe Rotunno
Scenografia: Mario Garbuglia
Costumi: Piero Tosi, Reanda, Sartoria Safas
Musiche: Nino Rota; Giuseppe Verdi
Interpreti e personaggi: Burt Lancaster (don Fabrizio Corbera, principe di Salina), Alain Delon (Tancredi Falconeri), Claudia Cardinale (Angelica Sedara/Donna Bastiana), Paolo Stoppa (don Calogero Sedara), Rina Morelli (principessa Maria Stella di Salina), Lucilla Morlacchi (Concetta), Romolo Valli (padre Pirrone), Mario Girotti (conte Cavriaghi), Pierre Clémenti (Francesco Paolo di Salina), Serge Reggiani (don Ciccio Tumeo), Maurizio Merli (Fulco, un amico di Tancredi), Giuliano Gemma (generale di Garibaldi), Ida Galli (Carolina), Ottavia Piccolo (Caterina), Carlo Valenzano (Paolo), Brook Fuller (principe), Ivo Garrani (colonnello Pallavicino), Leslie French (cavaliere Chevalley), Gino Santercole (uomo di Donnafugata), Lou Castel (generale)
Produzione: Italia, Francia 1963
Durata: 185 min
1860. La notizia dello sbarco dei garibaldini a Marsala interrompe la recita del rosario in casa del principe don Fabrizio di Salina (Burt Lancaster). Suo nipote Tancredi (Alain Delon), allo scopo di controllare il corso degli eventi, si arruola tra i volontari. Il principe approva l'opportunismo del nipote, credendo così di mettersi al riparo da ogni cambiamento. Di opposto avviso il prete di famiglia: il gesuita padre Pirrone (Romolo Valli). Nonostante la rivoluzione, i Salina si recano come ogni anno in villeggiatura nel feudo di Donnafugata. Qui è in corso il plebiscito per l'annessione allo Stato sabaudo, e il principe vota pubblicamente a favore. I risultati della votazione simulano un'adesione unanime; a dispetto di chi, come don Ciccio Tumeo (Serge Reggiani), aveva confermato la propria fedeltà al vecchio regime. Capo locale del nuovo corso è il sindaco don Calogero Sedàra (Paolo Stoppa), un "uomo nuovo" arricchitosi con i suoi traffici. Invitato a pranzo dal principe, il rozzo Sedàara sorprende tutti i convitati con la bellezza di sua figlia Angelica (Claudia Cardinale). Don Fabrizio appoggia il fidanzamento del nipote, nobile ma spiantato, con la ricca e sensuale ereditiera: nonostante che anche sua figlia Concetta (Lucilla Morlacchi) sia innamorata di Tancredi. Mentre questi comincia la scalata sociale nello Stato sabaudo, don Fabrizio declina il seggio di senatore offertogli dal funzionario piemontese Chevalley (Leslie French), poiché è del tutto scettico sulle possibilità di cambiamento della Sicilia. Durante un ballo a Palermo, presagisce la fine del proprio mondo e invoca l'estrema certezza della morte. Tancredi e don Calogero, invece, tornano dal ballo rassicurati: hanno udito che l'esercito regolare ha giustiziato i garibaldini ribelli.
Cosa fai quando il mondo che ti circonda sta cambiando, quando hai la sensazione che tutto ciò che conosci e ami lascerà il posto a un nuovo ordine? Ti opponi? Lo accetti? E come lo accetti? Con risentimento? Con grazia? Forse con tutt'e due. Chi può lasciarsi alle spalle il mondo che lo ha formato, senza addolorarsi per il tempo che passa? Queste domande, queste sensazioni che sono alla base della condizione umana si ritrovano in ogni inquadratura de Il Gattopardo, il magnifico adattamento di Luchino Visconti del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa su un principe siciliano al tempo del Risorgimento, il quale si rende conto che il suo ruolo storico, e quello della sua intera classe sociale, è di ritirarsi nell'ombra.
Visconti, che discendeva egli stesso da una delle famiglie aristocratiche più antiche d'Europa, passò molti anni a tentare un adattamento di Proust per il grande schermo. In un certo senso ci riuscì con questo stupefacente arazzo cinematografico in cui ogni gesto, ogni parola, la disposizione di ogni oggetto in ciascuna stanza richiama in vita un mondo perduto. Il Gattopardo è un'epica del tempo, e la sua lentezza, che culmina in un maestoso crescendo nella lunga sequenza del gran ballo, è governata dai ritmi di vita dell'aristocrazia fondiaria siciliana, con i suoi costumi e abitudini, la sua coltivazione dell'agio e della riflessione, i suoi viaggi stagionali. È un'epica della storia, in cui assistiamo con i nostri occhi alle trame del cambiamento: sui campi di battaglia, nelle vie e nei salotti dove i notabili si riuniscono per decidere chi muoverà i fili del potere. È anche il ritratto di un uomo, il Principe di Salina, interpretato da Burt Lancaster. All'epoca della lavorazione del film ci fu chi mise in dubbio questa scelta di cast, ma dopo aver visto Il Gattopardo risulta impossibile immaginare qualcun altro nei panni del Principe. Lancaster conferisce al personaggio forza e autorità ma anche intelligenza e grazia, e il suo senso di finezza aristocratica è straordinario. È un'interpretazione eccezionale, profondamente toccante. In definitiva, Il Gattopardo è un grande inno sinfonico alla Sicilia, al suo popolo, ai suoi profumi e al suo paesaggio, alla sua bellezza e alla sua violenza.
Il film di Visconti è una delle più grandi esperienze visive della storia del cinema, e nel corso degli anni i restauri si sono rivelati estremamente difficili. Sono molto felice che la Film Foundation, con il sostegno finanziario di Gucci, abbia contribuito a rendere possibile questo straordinario restauro. Ci è stato così restituito uno dei nostri tesori più preziosi, in tutta la sua gloria.
(Martin Scorsese)
La grande guerra
Regia: Mario Monicelli
Soggetto: Mario Monicelli, Age & Scarpelli, Luciano Vincenzoni
Sceneggiatura: Mario Monicelli, Age & Scarpelli, Luciano Vincenzoni
Montaggio: Adriana Novelli
Fotografia: Leonida Barboni, Roberto Gerardi, Giuseppe Rotunno, Giuseppe Serrandi
Scenografia: Mario Garbuglia
Costumi: Danilo Donati
Musiche: Nino Rota
Interpreti e personaggi: Alberto Sordi (Oreste Jacovacci), Vittorio Gassman (Giovanni Busacca), Silvana Mangano (Costantina), Romolo Valli (tenente Gallina), Folco Lulli (Giuseppe Bordin), Bernard Blier (capitano Castelli), Vittorio Sanipoli (maggiore Segre), Nicola Arigliano (Giardino), Geronimo Meynier (portaordini), Mario Valdemarin (sottotenente Loquenzi), Elsa Vazzoler (moglie di Bordin), Tiberio Murgia (Rosario Nicotra), Livio Lorenzon (sergente Battiferri), Ferruccio Amendola (De Concini), Gianni Baghino (un soldato), Carlo D'Angelo (capitano Ferri), Achille Compagnoni (cappellano), Luigi Fainelli (Giacomazzi), Marcello Giorda (il generale), Tiberio Mitri (Mandich), Gérard Herter (capitano austriaco), Guido Celano (maggiore italiano)
Produzione: Italia, Francia 1959
Durata: 135 min
L'Italia si prepara alla prima guerra mondiale. Il milanese Giovanni Busacca vorrebbe evitare l'arruolamento e il piantone romano Oreste Jacovacci gli fa intendere che dietro compenso lo farà riformare. Non è così e Giovanni cerca Oreste per dargli una lezione. Tuttavia, quando si ritrovano, i due diventano amici. A Tigliano, piccolo paese nelle retrovie, attendono d'essere mandati al fronte ...
Monicelli rovescia il mito retorico e militarista della grande guerra e mostra, già coi titoli di testa, il fango, il pessimo vitto, il povero equipaggiamento, la scrittura di una cartolina. Ecco come egli tratta questo tema, fondamentale nella sua concezione del film: «questa penisola, di, di, di venticinque, trenta milioni di abitanti… di cui … il settanta per cento, vero, analfabeti, cioè a dire […], ’un sapevano un cazzo […], questi cinque milioni di italiani messi llà e tenuti per quattro anni dentro una fossa […] al freddo, al caldo si schiantava, bombardati, mal nutriti eccetera, poi ala fine parlavano un coll’altro […], una certa lingua comune riuscivano a costruirla, eh beh!, quello è stato in fondo la prima cosa che ha messo insieme gli italiani, bene o male… male, ma ’nsomma l’ha messi insieme» (intervista del 2008).
Amarcord
Regia: Federico Fellini
Soggetto e Sceneggiatura: Federico Fellini, Tonino Guerra
Montaggio: Ruggero Mastroianni
Fotografia: Giuseppe Rotunno
Scenografia: Danilo Donati
Costumi: Danilo Donati
Musiche: Nino Rota
Trucco: Rino Carbone
Effetti speciali: Adriano Pischiutta
Interpreti e personaggi: Pupella Maggio (Miranda Biondi), Armando Brancia (Aurelio Biondi), Magali Noël (Ninola detta "Gradisca"), Ciccio Ingrassia (Teo, lo zio matto), Nando Orfei (il "Patacca", zio di Titta), Luigi Rossi (Avvocato), Bruno Zanin (Titta Biondi), Gianfilippo Carcano (Don Balosa), Josiane Tanzilli (la "Volpina"), Maria Antonietta Beluzzi (tabaccaia), Giuseppe Ianigro (nonno), Marcello Di Falco (principe), Alvaro Vitali (Naso), Ferruccio Brembilla (capo fascista)
Produzione: Italia, Francia 1973
Durata: 123'
A Borgo, tra il 1930 e il 1935, l'adolescente Titta cresce subendo condizionamenti entro e fuori dell'ambito domestico; mentre tenta di affermare la propria personalità, gli sovvengono molteplici ricordi. Suo padre Aurelio è un piccolo impresario edile perennemente in discordia con la moglie Miranda; zio Patacca vegeta alle spalle dei parenti; zio Teo è ricoverato in manicomio; il nonno si gode egoisticamente una salute di ferro, non trascurando di prendersi delle libertà con la domestica. Nella provinciale cittadina emergono: Gradisca, una procace parrucchiera; Volpina una ragazza un po' scema e priva di freni inibitori; una tabaccaia mastodontica, quasi mostruosa; un avvocato dalla retorica facile e magniloquente; Giudizio, il matto; Biscein il bugiardo; il motociclista esibizionista e tutta una galleria di personaggi che, agendo nel mondo della scuola, della chiesa, e nelle feste fasciste, nelle celebrazioni folcloristiche o negli avvenimenti eccezionali, rivelano caratteristiche bislacche. Le stagioni trascorrono inesorabili, scandite dal cadere della neve o delle "manine" staccatesi dai primi fiori primaverili.
Il copione non ha una sbavatura, una battuta fuori tono. Si ride e si piange, spesso contemporaneamente. L’ironia è alta, feroce ma anche partecipe, e qui si compie il secondo miracolo: fin dal titolo, che in romagnolo significa «mi ricordo», Amarcord è nostalgico senza paura di esserlo. La nostalgia non è necessariamente un sentimento negativo. Al cinema è assai rischiosa, ma in Amarcord il rischio viene corso e superato. Ovviamente non è nostalgia del fascismo, bensì dell’infanzia e dell’adolescenza. Per chi è nato negli anni Venti, come Fellini, gli anni più teneri e belli sono coincisi con il ventennio e il sentimento per quel passato non può che essere ambivalente: giudizio severo sull’Italia di allora (e non è un caso che uno dei numerosi «matti» che popolano il Borgo sia soprannominato proprio così: Giudizio), struggente calore per ciò che si era e non si è più, per le sciocchezze combinate con gli amici, gli scherzi goliardici, i genitori scomparsi, i primi desideri nei confronti di donne irraggiungibili. (...)
Il casting è una serie di colpi di genio. Abbiamo citato Zanin e Ingrassia (anch’egli, siciliano, doppiato: dal bolognese Enzo Robutti), bisognerà citarne tanti altri. I genitori di Titta sono Armando Brancia e Pupella Maggio, entrambi napoletani. Li doppiano Corrado Gaipa (siciliano) e Ave Ninchi (marchigiana). Lo zio Lallo, detto «il Patacca», è il domatore e impresario circense Nando Orfei: lo doppia Romolo Valli, emiliano. La leggendaria tabaccaia è la bolognese Maria Antonietta Beluzzi, con la voce della siculo-romana Solvejg D’Assunta che è la doppiatrice suprema di Fellini, quella che sa fare tutti gli accenti e gli chiude, in fase di doppiaggio, tutte le «cosine» rimaste senza voce (è un ruolo che, in versione maschile, hanno ricoperto negli anni Elio Pandolfi, Carlo Croccolo, Alighiero Noschese e Oreste Lionello (...)
Come film di ricordi Amarcord è straordinariamente oggettivo. Per un regista spesso accusato di essere ombelicale, è sorprendente quanto il film racconti la collettività. Le scene familiari si allargano alla scuola, al tempo libero, alla chiesa, alla casa del fascio, allo struscio serale sul corso. Pur avendo un titolo in prima persona, Amarcord mette in scena una memoria collettiva. Scrive Kezich: «Se un sociologo dovesse fare uno studio dell’Italia fra le due guerre disponendo solo di Amarcord che cosa troverebbe? Famiglie tribali, pessime scuole, repressione sessuale, manicomi-prigione, fascismo. Non si può certo dire che il regista sia stato tenero verso la società vivacchiante sotto il tallone della dittatura... Ed è curioso che un giudizio tanto implacabile sui danni prodotti dal fascismo sulla società italiana venga da un autore dichiaratamente impolitico» (Kezich). (...)
Quando si svolge Amarcord? Domanda non oziosa. L’arco narrativo copre un anno, da una primavera all’altra. Il passaggio del Rex (che percorse l’Adriatico solo nel suo ultimo viaggio verso Trieste, a guerra già in corso) farebbe pensare al 1932, anno del varo del mitico transatlantico. Ma il Rex non passò mai davanti a Rimini e quella bellissima scena, girata nel backlot di Cinecittà, è un sogno ad occhi aperti, nonché la messinscena dell’orgoglio del regime. Il «nevone» rimanda invece al 1929, quando un’ondata di freddo sommerse tutta l’Italia del Nord e la riviera romagnola in particolare. Il cinema Fulgor espone i cartelloni di un film inventato, La valle dell’amore con Gary Cooper: ma quando Titta vi insegue la Gradisca sullo schermo compare il divo in Beau Geste, il che ci porterebbe addirittura al 1939.
È immaginario anche il cartellone di Danzando con te con Fred Astaire e Ginger Rogers, però l’allusione è più chiara: Voglio danzar con te, musical con la celebre coppia, è del 1937. La VII edizione della Mille Miglia (annunciata da uno striscione) si svolge nel 1933. Amarcord è un collage degli anni Trenta, il decennio in cui Fellini e l’Italia fascista condividono lo stesso tempo della vita, l’adolescenza. «Non è l’opinione dell’autore a formare il nostro giudizio sugli anni Trenta, ma la semplice esposizione dei fatti. Quello che Amarcord rende a meraviglia, con una nota appena accennata di pietà, è la stupidità di un mondo che all’ombra funesta dei gagliardetti stava consumando gli ultimi fervori ottocenteschi; ed era pronto a emozionarsi, come si vede in una della scene più memorabili, di fronte alla maestosità del transatlantico Rex, simbolo pregnante che starebbe bene come illustrazione a un libro di Jung» (Kezich).
Storia d'Italia in 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)
I grandi magazzini
Regia: Mario Camerini
Soggetto: Mario Camerini, Ivo Perilli
Sceneggiatura: Mario Camerini, Renato Castellani, Mario Pannunzio, Ivo Perilli
Montaggio: Mario Camerini
Fotografia: Anchise Brizzi
Scenografia: Guido Fiorini, André Andrejeff
Costumi: Marcello Caracciolo di Laurino
Musiche: Alessandro Cicognini, Giovanni D'Anzi, Cesare A. Bixio, diretta da Ugo Giacomozzi
Interpreti e personaggi: Vittorio De Sica (Bruno Zecchi), Assia Noris (Lauretta Corelli), Enrico Glori (Bertini), Luisella Beghi (Emilia), Virgilio Riento (Gaetano), Milena Penovich (Anna), Andrea Checchi (Maurizio) Mattia Giancola (fratello di Anna), Nino Crisman (ispettore dei magazzini), Dhia Cristiani (commessa) Aldo Capacci (giovane dell'ascensore), Alfredo Petroni (direttore dei grandi magazzini), Liliana Vismara (Rina), Dino De Laurentiis (fattorino),
Produzione: Italia, 1939
Durata: 85 min
Come risarcimento per essere stato investito dalla macchina del direttore, Bruno viene assunto come autista ai Grandi Magazzini. Qui conosce Lauretta, una commessa del reparto abiti sportivi, e se ne innamora. Nel frattempo, però, Anna, un'altra commessa, è intenzionata a sedurre Bruno per utilizzarlo come copertura ai traffici clandestini conodtti ai danni della ditta insieme al fratello e al capo del personale. Una serie di equivoci complicherà la situazione e metterà in discussione l'amore di Bruno e Lauretta, quest'ultima corteggiata proprio dall'inflessibile capo del personale.
"Grandi magazzini, il nuovo film di Mario Camerini, è stato proiettato stasera in prima visione alla Mostra [7ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia], alla presenza del ministro Alfieri e del dott. Goebbels, con vivissimo successo. Dalla data memorabile di Gli uomini, che mascalzoni... i film di Camerini hanno sempre figurato nelle competizioni veneziane quale una delle garanzie più sicure per i nostri colori....Applausi e risate a scena aperta...battimani che si rinnovò con uguale e festante fervore all'indirizzo di Assia Noris, presente nella sala. Camerini, trattenuto da impegni di lavorazione a Roma, non era potuto venire."
Filippo Sacchi, "Il Corriere della Sera", 11 agosto 1939
Siamo partiti da questo giudizio entusiasta di Filippo Sacchi, non condiviso da tutta la critica, per evidenziare la presenza alla proiezione del ministro del Minculpop Dino Alfieri, l’artefice, l’anno prima, del regio decreto del 4 settembre 1938, convertito in legge il 9 gennaio 1939, che impose l’autarchia distributiva, affidando all’ENIC (l’Ente Nazionale per le Industrie Cinematografiche, fondato nel 1935) il monopolio per l’acquisto, l’importazione e la distribuzione dei film stranieri. La “legge Alfieri” inoltre prevedeva, a partire dal 1940, l’abolizione delle sovvenzioni pubbliche e la distribuzione di premi in base agli incassi dei film al botteghino. Pertanto le società cinematografiche erano invitate indirettamente a favorire la produzione di pellicole commerciali. I prodotti americani non sparirono del tutto dal grande schermo, ma i produttori italiani sfornarono un maggior numero di film. Grandi Magazzini è un film fondamentale per la cinematografia italiana e non solo camerianiana, dal momento che viene realizzato proprio nel periodo in cui l’Italia era all’apice della campagna autarchica e quindi determinata a soppiantare Hollywood con Cinecittà. Mario Camerini, scrivendo la sceneggiatura di Grandi Magazzini con Ivo Perilli, Mario Pannunzio e Renato Castellani, rispetta infatti quelle che erano le indicazioni della politica culturale di quel preciso momento storico: da un lato realizzare un film che non facesse rimpiangere la produzione hollywoodiana, attingendo a piene mani all’immaginario “a stelle e strisce”, al fine di garantire dei successi al botteghino, dall’altro confezionare un prodotto made in Italy che pubblicizzasse i «Prodotti autarchici del primato italiano», come si legge in un cartello collocato nel reparto abbigliamento del grande emporio.
Il grande magazzino, pur nella versione italiana, porta ad associare questo simbolo della modernità all’America e ai suoi film tanto amati e visti dagli italiani fino all’anno prima. I caratteri del mito della modernità cinematografica sembrano così identificarsi, anche nei film dell’Italia autarchica, con l’inconfessabile sogno americano che incarna perfettamente lo spirito della “nuova era” con il livellamento delle classi sociali, l’affermazione della piccola borghesia urbana, l’esposizione della merce nei grandi magazzini, gli oggetti di arredamento, l’affermazione dei mass media e dello sport, l’uso dell’automobile e soprattutto l’affacciarsi sulla scena sociale di una nuova figura femminile.
Camerini, tuttavia, pur strizzando l’occhio alla commedia hollywoodiana, che in quegli anni aveva messo in campo uno stuolo di commesse, dattilografe e segretarie, alle prese con la durezza della vita lavorativa, persegue una “via italiana”. Jacqueline Reich sottolinea, in particolare, la presenza nel film di codici hollywoodiani ... Ma come la studiosa poi precisa non c’è, nel film, soltanto il trionfo del bene sul male e la conclusione classica del “vissero tutti felici e contenti”; sono anche affrontate alcune tematiche considerate tabù, come la molestia sessuale e la precaria condizione economica delle commesse. Quando Lauretta pensa di fare la fine della collega Anna ed Emilia la rassicura, la ragazza aggiunge: «E povera Emilia, tutti i nostri ragionamenti non ci impediscono di essere due disgraziate». Questa affermazione, secondo la testimonianza dello stesso regista, irritò un ministro che disse: «Se Camerini continua a fare di questi film, con la storia di due ragazzi che mangiano poco, non glieli facciamo fare più».
Grandi Magazzini è anche una riflessione sui miti della modernità, in particolare sul consumismo inteso sia nell’accezione letterale di acquisto di merci sia in senso traslato come consumo sessuale. L’emporio mette in mostra un campionario quasi inesauribile di prodotti: dall’abbigliamento ai liquori, dai dolci agli oli lubrificanti, dai cosmetici all’arredamento. Il grande magazzino diventa una sorta di città del consumo esposta in una vetrina ancora più vasta, il proscenio urbano, in cui il consumatore partecipa ad una “sfilata” delle merci acquistate, esibendole nei ritrovi del tempo libero, cinematografi, sale da ballo, ristoranti e piste da sci. Allo stesso tempo l’emporio è una vetrina ammaliatrice non solo per il consumatore ma anche per chi ci lavora, che rischia di essere considerato un prodotto tra gli altri, come accade alle commesse. Camerini ha espresso in questo film, dalla trama in apparenza simile ai precedenti, una sottile e feroce critica, nei riguardi dei miti consumistici che possono condurre l’individuo a perdere di vista i valori etico-morali. La donna, in quanto principale destinataria del messaggio pubblicitario veicolato dai mass media dell’epoca, è soggetto ed oggetto del nuovo stile di vita indotto dalla società dei consumi.
Estratti dalla Tesi "Percorsi tra tradizione e modernità all’interno dell’universo femminile nel cinema di regime (1929-1943)" di Meris Nicoletto