Stagione 2021-2022
Tutti a casa
Regia: Luigi Comencini
Soggetto: Age & Scarpelli
Sceneggiatura: Age & Scarpelli, Luigi Comencini, Marcello Fondato
Montaggio: Nino Baragli
Fotografia: Carlo Carlini
Scenografia: Carlo Egidi
Costumi: Ugo Pericoli
Musiche: Francesco Lavagnino
Trucco: Giuliano Laurenti
Effetti speciali: Serse Urbisaglia
Interpreti e personaggi: Alberto Sordi (Sottotenente Alberto Innocenzi), Eduardo De Filippo (Signor Innocenzi, padre di Alberto), Serge Reggiani (Geniere Assunto Ceccarelli), Martin Balsam (Sergente Quintino Fornaciari), Lelio Volponi (Nonno Fornaciari), Nino Castelnuovo (Codegato), Carla Gravina (Silvia Modena), Claudio Gora (Colonnello), Mino Doro (Maggiore Nocella), Mario Feliciani (Capitano Passerini), Alex Nicol (prigioniero americano), Guido Celano (fascista che arresta Fornaciari), Jole Mauro (Teresa Fornaciari, moglie di Quintino), Didi Perego (Caterina Brisigoni, trafficante di farina), Mac Ronay (Evaristo Brisigoni)
Produzione: Italia, Francia 1960
Durata: 117'
Il sottotenente Innocenzi, travolto come tutti i suoi commilitoni dall'armistizio dell'8 settembre 1943, cerca di tornare a casa insieme a tre militari del suo reparto. Alla fine - ormai rimasto solo con il geniere Ceccarelli - ce la fa, ma suo padre vorrebbe vederlo arruolato con i tedeschi...
Tutti a casa entra in produzione nei primi mesi del 1960 per volontà di Dino De Laurentiis, lo stesso produttore di La grande guerra. Il successo commerciale del film di Monicelli cambia radicalmente il mercato del cinema italiano. Viene sdoganata l’idea che divi della commedia come Sordi e Gassman possano morire sullo schermo senza far fuggire il pubblico dalle sale. Entra nel comune sentire, soprattutto, il concetto che la commedia all’italiana può affrontare temi «alti» e drammatici senza snaturarsi; può perseguire la risata e il divertimento mescolandoli con la paura, la tragedia, la morte; può raccontare storie ambientate nel cuore della Storia. Rossellini e Fabrizi l’avevano già detto chiaramente con la famosa «padellata» di Roma città aperta, ma non tutti se n’erano accorti. Con Tutti a casa dubbi e ambiguità vengono spazzati via, e chi vorrà normalizzare la commedia da allora in poi lo farà a proprio rischio e pericolo, mentirà sapendo di mentire.
La scelta del soggetto è perfetta. L’8 settembre è uno snodo storico in cui tragedia e farsa si fondono magnificamente, e nessuno meglio di Alberto Sordi può incarnare un italiano travolto dagli eventi, capace di essere vigliacco ed eroe nel breve volgere di un batter d’occhi. In La grande guerra la sintesi tra coraggio e cialtroneria si realizza nell’ultima sequenza, in Tutti a casa percorre tutto il film. Tutto ciò resterebbe sulla carta se ogni momento del film non fosse straordinariamente autentico. L’autenticità nasce dall’esperienza diretta di uno degli sceneggiatori: Agenore Incrocci in arte Age, «metà» della magnifica coppia Age & Scarpelli, ha vissuto durante la guerra esperienze molto simili a quelle raccontate nel film. (...)
Tutti a casa non è solo la storia dei militari sbandati dopo l’8 settembre. Tutti a casa è la storia di alcuni militari che imparano a diventare uomini, di alcuni sudditi che imparano la democrazia. Ci sono due scene, nel film, che raccontano questo processo in modo quasi brechtiano. Una è la cena a casa del sergente Fornaciari: la polenta sparsa sul tavolo, come si usava una volta, la poca carne nel mezzo, e ciascuno deve mangiare la sua fetta prima di arrivare al companatico; l’americano bara, e Sordi lo sgrida dicendo «fair play». L’altra è la divertentissima scena in treno in cui Innocenzi, Fornaciari e il soldato Codegato mettono ai voti se mangiarsi o no il contenuto della valigia di Ceccarelli, piena di cibo. Gli altri due votano per il sì, Innocenzi vota contro ma si rimette alla maggioranza e partecipa al banchetto. In queste scene la commedia non è una sovrastruttura che si sovrappone al dramma storico, la commedia «è» il dramma, porta nel dramma storico l’imperfezione e l’inadeguatezza che rende umani gli uomini.
E' implicito che, nel finale, Innocenzi diventi un partigiano, uno dei tanti passati con coraggio dal regio esercito alla lotta clandestina. Ma è altrettanto assodato che molti fascisti – a cominciare dal papà di Innocenzi, interpretato dal grande Eduardo De Filippo – non capiscano e non vogliano capire, credano ancora che i tedeschi «hanno l’arma segreta» e che sia doveroso seguire Mussolini al Nord. Proprio come vorrebbe l’amico del padre, il maggiore Nocella, coraggiosamente interpretato da un attore – Mino Doro – che era un divo del cinema fascista e aveva prestato volto e fisico virili a Vecchia guardia, il film di propaganda di Blasetti. Di fronte alla figura paterna, tenera e testarda, amata e incomprensibile (Sordi lo saluta chiamandolo «capoccione») il tenente trova una sola soluzione: la fuga. La trasformazione in cittadino è ancora imparziale, imperfetta. Anche la votazione sul treno – forzandone appena lievemente il portato simbolico – è la nascita di una democrazia basata sull’opportunismo: io voto contro, ma se si tratta di riempirsi lo stomaco sto con la maggioranza.
Storia D'italia In 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)
C'eravamo tanto amati
Regia: Ettore Scola
Soggetto e Sceneggiatura: Age & Scarpelli, Ettore Scola
Montaggio: Raimondo Crociani
Fotografia: Claudio Cirillo
Scenografia: Luciano Ricceri
Costumi: Luciano Ricceri
Musiche: Armando Trovajoli
Trucco: Goffredo Rocchetti, Giulio Natalucci
Interpreti e personaggi: Nino Manfredi (Antonio), Vittorio Gassman (Gianni Perego), Stefania Sandrelli (Luciana Zanon), Stefano Satta Flores (Nicola Palumbo), Giovanna Ralli (Elide Catenacci, moglie di Gianni), Aldo Fabrizi (Romolo Catenacci), Marcella Michelangeli (Gabriella, moglie di Nicola), Elena Fabrizi (moglie di Romolo Catenacci), Fiammetta Baralla (Maria, nuora di Romolo Catenacci), Luciano Bonanni (Torquato, un malato), Mike Bongiorno (se stesso), Dino Curcio (farmacista di Nocera Inferiore), Isa Barzizza (la proprietaria della pensione), Marcello Mastroianni (se stesso), Federico Fellini (se stesso), Vittorio De Sica (se stesso), Ugo Gregoretti (se stesso), Nello Meniconi (se stesso), Carla Mancini (Lena), Livia Cerini (Rosa, ragazza al ristorante), Armando Curcio (Palumbo padre), Enrico Beruschi (un automobilista al parcheggio), Lorenzo Piani (Enrico)
Produzione: Italia 1974
Durata: 120 min
Gianni, Nicola e Antonio hanno fatto la Resistenza, certi di combattere per un futuro migliore. Poi, finita la guerra, hanno preso strade diverse: Antonio è portantino al San Camillo di Roma; Gianni è entrato, grazie al matrimonio, nella famiglia di un palazzinaro; Nicola insegna a Nocera Inferiore finché rompe con la famiglia e con la scuola e tenta di inserirsi nella critica cinematografica a Roma. Luciana, innamorata di Antonio, passa attraverso parecchie esperienze - compreso un tentativo di suicidio - prima di tornare da lui e sposarlo. In occasione di un incontro imprevisto, i protagonisti rievocano i tempi andati e i casi delle loro vite, e prendono atto dei cambiamenti, taluni drammatici.
Due film hanno raccontato il dopoguerra coprendo un arco narrativo di decenni e tentando un bilancio della ricostruzione post-bellica. Sono due commedie: Una vita difficile (Dino Risi, 1961) e C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974). Partono dalla Resistenza, scegliendo come protagonisti dei partigiani, e arrivano al proprio presente: il boom degli incipienti anni Sessanta, le tensioni degli anni Settanta. Alla faccia di chi ha sempre considerato la commedia all’italiana un cinema escapista, d’evasione, sono film nei quali la politica è in primo piano. Di nuovo: alla faccia di chi ha sempre considerato la commedia all’italiana un cinema semplice e semplicistico, sono film dalla struttura narrativa complessa e fortemente metacinematografici. Entrambi riflettono sulla natura del mezzo espressivo: in modo ironico quello di Risi, scavando nelle pieghe del linguaggio quello di Scola. (...)
C’eravamo tanto amati è un film corale, più complesso. Gli ex partigiani sono tre: Antonio (Nino Manfredi), Nicola (Stefano Satta Flores) e Gianni (Vittorio Gassman). Il primo rimane un compagno duro e puro, uno di quei comunisti ortodossi che hanno costituito la spina dorsale del Pci dal ’45 alla Bolognina; il secondo è nato outsider e attaccabrighe, incarna la coscienza critica ma anche autodistruttiva di tutto ciò che si muove a sinistra del Pci; il terzo è il personaggio più problematico e in ultima analisi più interessante, un idealista che si vende al capitale, sposa la figlia di un palazzinaro fascista e annega i sogni di gioventù nella ricchezza.
Se c’è un difetto che si può rimproverare a C’eravamo tanto amati – film per molti versi magnifico, con una narrazione fluviale e personaggi ben scritti e benissimo interpretati – è il suo essere un teorema, in cui i tre personaggi simboleggiano tre anime della sinistra italiana e Luciana (Stefania Sandrelli), la donna di cui tutti e tre si innamorano in momenti e modi diversi, è l’Italia. Se però, nel teorema, Gianni è il Psi pronto a compromettersi con il potere nell’Italia del centro-sinistra, va dato atto a Scola e ai suoi sceneggiatori Age & Scarpelli di aver azzeccato una profezia. Anche se Gianni si arricchisce non «con» la politica, ma tradendo la politica: nel 1974 il Psi di Craxi e De Michelis non era ancora immaginabile. (...)
Sono tanti i tasselli storici, in C’eravamo tanto amati. Dall’iniziale montaggio di cinegiornali (la fine della guerra, il referendum, De Gasperi che prende i soldi da Truman e caccia Togliatti dal governo...) alle adunate nei bar per vedere Lascia o raddoppia? in televisione, fino a una delle scene più belle del film, la ricostruzione del set di La dolce vita a Fontana di Trevi dove Antonio e Luciana si ritrovano dopo molto tempo, e dove Federico Fellini e Marcello Mastroianni fanno i se stessi di quindici anni prima (in Una vita difficile, invece, ci sono apparizioni di Alessandro Blasetti, Vittorio Gassman e Silvana Mangano). Nella scena c’è un momento meraviglioso, quando un assistente va da Fellini e gli chiede di ricevere un ufficiale del Sifar, «ce po’ fa’ comodo per i permessi». Il tizio avanza, stringe la mano al regista e gli dice «sono onorato di conoscere il grande Rossellini». Fellini scoppia a ridere e la sua reazione è genuina, nessuno l’aveva avvisato che l’ufficiale avrebbe pronunciato quella battuta.
Lo scorrere della storia si fa cinema, racconto orale, musica: «Se tentassi di immaginare che cosa avremmo fatto di tutto il materiale scritto nel caso in cui non fosse stato inventato il cinematografo, non mi sentirei di rispondere: nulla. Ne avremmo fatto teatro, racconti, canzoni o favole da raccontare a veglia» (Furio Scarpelli in Faldini-Fofi 3, p. 203). Alla fine cosa rimane, oltre a un gigantesco «boh»? Lasciamolo dire a Scola: «C’è l’idea che in Italia la collettività sia migliore dei suoi governanti e di quelli che parlano a suo nome... non mi pare un film pessimista, se non nel senso gramsciano del ‘pessimismo della ragione’» (Faldini-Fofi 3, p. 204).
Storia D'italia In 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)
Paisà
Regia: Roberto Rossellini
Soggetto: Sergio Amidei, Klaus Mann, Federico Fellini, Marcello Pagliero, Alfred Hayes, Roberto Rossellini, Vasco Pratolini
Sceneggiatura: Sergio Amidei, Roberto Rossellini, Federico Fellini
Montaggio: Eraldo Da Roma
Fotografia: Otello Martelli
Musiche: Renzo Rossellini
Interpreti e personaggi
I episodio:
Carmela Sazio (Carmela), Robert Van Loon (Joe, soldato americano), Merlin Berth (Merlin, soldato americano), Mats Carlson (Swede, soldato americano), Leonard Parrish (soldato americano), Benjamin Emanuel (soldato americano), Raymond Campbell (soldato americano), Harold Wagner (Harry, soldato tedesco), Albert Heinze (soldato tedesco), Carlo Pisacane (un uomo di Gela)
II episodio:
Dots Johnson (Joe, soldato americano della polizia militare), Alfonsino Pasca (Pasquale), Pippo Bonazzi (soldato, non accreditato)
III episodio:
Maria Michi (Francesca), Gar Moore (Fred, soldato americano), Lorena Berg (Amalia, non accreditata)
IV episodio:
Harriet White (Harriet, l'infermiera), Renzo Avanzo (Massimo), Gianfranco Corsini (Marco, non accreditato) Giulietta Masina (una ragazza sulle scale, non accreditata), Gigi Gori (partigiano morente, non accreditato)
V episodio:
Bill Tubbs (cap. Bill Martin, cattolico), Newell Jones (cap. Jones, protestante, non accreditato), Elmer Feldman (cap. Feldman, ebreo, non accreditato)
VI episodio:
Dale Edmonds (Dale, agente dell'OSS), Roberto Van Loel (soldato tedesco), John Whaling Allen (soldato americano), Dan (soldato americano), Cigolani (un partigiano)
Produzione: Italia, 1946
Durata: 124'
Il film è composto da sei episodi che ripercorrono un momento della storia italiana (siamo nel periodo 1943-1944) seguendo il cammino degli alleati dal Sud verso il Nord. Gli alleati sbarcano in Sicilia; nella Napoli occupata dagli alleati uno sciuscià ruba le scarpe a un soldato di colore. Roma: una storia d'amore tra una prostituta e un soldato americano. A Firenze tedeschi e partigiani si combattono sui tetti della città tagliata in due dal fronte. Dopo una parentesi in un convento sull'appennino emiliano, approdiamo sul delta del Po mentre infuria la lotta partigiana.
Una raccolta di novelle in luogo del “romanzo” di Roma, città aperta. Un filo conduttore le unisce: le attualità cinematografiche sulla campagna dell'esercito anglo-americano in Italia, fra il 10 luglio 1943 e l'inizio del 1945. La voce di un anonimo speaker (la voce impersonale della “grande” storia) introduce Paisà con queste parole: “La notte del 10 luglio 1943 la flotta anglo-americana apriva il fuoco contro le coste meridionali della Sicilia”. La stessa voce lo conclude, non più su immagini di repertorio ma sui tonfi dei partigiani gettati in acqua dai tedeschi, con una secca epigrafe: “Questo accadeva nell'inverno del 1944. All'inizio della primavera la guerra era già finita”.
Nell'intervallo, la “piccola” storia degli uomini aveva registrato la morte, la disperazione, la speranza, la lotta per la libertà in circostanze atroci. Sei novelle di taglio “classico”, con un nucleo drammatico sviluppato in modo lineare, con una soluzione tronca e senza indugi descrittivi. I modelli ai quali il film rimanda li si può trovare (anche se è improbabile che gli autori vi abbiano pensato) nella tradizione narrativa dell'Ottocento, da Maupassant a Verga. Nient'altro, però, che il modello della struttura. La sostanza è lo sguardo che Rossellini rivolge alle cose.
Paisà è, per questo, l'opera più pura del neorealismo. Indica che cosa può essere il cinema, quando, superando la nozione del documentario e negando l'intreccio del film a soggetto codificato dalle pratiche spettacolari dell'industria, affronta la ricerca di una forma per imprigionare la realtà nella sintesi di una immagine globale invece che nell'analisi dei dettagli significativi. Il tema è pur sempre quello - romantico - della imperscrutabilità del destino, ma la forma dei racconti riesce a eliminarne tutte (o quasi) le scorie. Il primo episodio è la storia di una ragazza siciliana che, la notte successiva allo sbarco, accompagna una pattuglia di americani in ricognizione sui dirupi della costa. Giunti a una torre che domina il mare, Carmela e Joe - uno dei soldati della pattuglia - sono lasciati soli, di guardia. Parlano lingue diverse: solo qualche barlume di comprensione passa fra i due, il ricordo di una famiglia lontana, la preoccupazione per il padre e i fratelli che da parecchi giorni mancano da casa. Joe fa scattare l'accendino per illuminare una fotografia. Quanto basta perché un tedesco, appostato nelle vicinanze, lo centri e lo abbatta. Giunge la pattuglia tedesca, scopre la ragazza. Carmela prende il fucile di Joe, fa fuoco. Poco dopo tornano gli americani, trovano Joe morto. “Sporca ragazza italiana”, mormora il sergente. Il corpo di Carmela giace sfracellato sulle rocce. Il secondo episodio narra l'incontro, a Napoli, di un soldato negro e di uno scugnizzo: il furto di un paio di scarpe, il sovrapporsi di due solitudini, la nascita di una improvvisa solidarietà.
Roma è il luogo del terzo episodio. Francesca trova per strada un soldato ubriaco. Se lo trascina nella camera di una pensione. Ma quello è distrutto, ha girato tutta la città per cercare una ragazza che aveva incontrato il giorno dell'arrivo a Roma. La ragazza è lei, Francesca. Fred non la può riconoscere. Francesca fugge, gli lascia un biglietto con l'indirizzo di casa sua e un appuntamento per l'indomani. Aspetterà invano, sotto la pioggia. Fred riparte per il fronte. Getta via il biglietto. “Cos'è?”, gli chiedono. “L'indirizzo di una puttana.”
Risalendo l'Italia con le truppe alleate, si giunge a Firenze. Ecco la storia della ricerca che una infermiera inglese compie per raggiungere - nella città divisa in due dal fronte - l'uomo che ama, un comandante partigiano. Attraversa le linee, è coinvolta in drammatici episodi di guerriglia (culminanti nella fucilazione di tre cecchini fascisti: poche immagini, di scarna e spaventosa efficacia), apprende per caso che è morto in combattimento.
In un convento, sull'Appennino fra Toscana ed Emilia, sono accolti fraternamente tre cappellani militari, un cattolico, un protestante e un ebreo. I frati, quando scoprono che due non sono cattolici, sono assaliti da profonda costernazione. E la sera, in refettorio, servita la cena ai cappellani, digiunano per impetrare dalla Provvidenza la conversione degli eretici.
Al quinto episodio segue l'ultimo - il più lucido e tragico - che si svolge alle foci del Po. Un gruppo di partigiani, con i quali combatte un americano dell'OSS, è braccato dai tedeschi. Trova rifugio in un casolare, deve riprendere la fuga (si scoprirà poco dopo che tutti gli abitanti casolare sono stati sterminati, meno un bambino che piange disperato sulla riva del canale). Accerchiati, i pochi superstiti sono tenuti tutta la notte all'aperto e al mattino gettati uno per uno in acqua da un barcone che risale il fiume.
Fernaldo Di Giammatteo 100 film da salvare, Mondadori 1978
I basilischi
Regia: Lina Wertmüller
Soggetto: Lina Wertmüller
Sceneggiatura: Lina Wertmüller
Montaggio: Ruggero Mastroianni
Fotografia: Gianni Di Venanzo
Scenografia: Antonio Visone
Musiche: Ennio Morricone
Interpreti e personaggi:
Interpreti e personaggi: Antonio Petruzzi (Antonio), Stefano Satta Flores (Francesco), Sergio Ferrannino (Sergio), Luigi Barbieri (padre di Antonio), Flora Carabella (Luciana Bonfanti), Mimmina Quirico (zia di Antonio), Enzo Di Vecchia (l'amico), Marisa Omodei (Cicci D'Andrea), Manlio Blois (il proprietario terriero), Enzo Mitolo, Rosanna Santoro, Rosetta Palumbo
Produzione: Italia, 1963
Durata: 84'
I basilischi sono i giovani della provincia del Sud Italia, che, come lucertole al sole, passano le giornate apatici e svogliati su e giù per il paese o al circolo senza un vero obiettivo, un ideale, una prospettiva di vita.
“Era il 1961. Stavo andando con Tullio Kezich a trovare Francesco Rosi sul set di Salvatore Giuliano. Prima di giungere sul posto dove si girava il film, decidemmo di fare un giro in Puglia per visitare alcune cattedrali. Volli passare per Palazzo San Gervasio, il paese natale di mio padre. Fu per me la scoperta di un mondo, di quella parte d’Italia tagliata fuori dalle rotte delle tante guerre e dalla Storia”. Lina Wertmuller racconta così le sue origini lucane e la scoperta della sua terra. “Mi aveva fatto un grande effetto vedere i miei zii, i miei cugini e lo stile di vita che conducevano in quella terra del profondo Sud”.
Lina raccontò le sue impressioni a Tullio Kezic: “Perché non scrivi questa storia? Se ne potrebbe fare un film insolito sul Sud”, le disse il critico. “La scrivo”, replicò Lina. Tornata a Roma impiegò una settimana a scrivere la storia e le sue emozioni provate nella Basilicata dei suoi avi. Quel copione piacque, ma non c’erano fondi. Racconta la Wertmuller che per un’opera prima servivano, all’epoca, circa 100 milioni. Per girare I Basilischi ne furono trovati 34. La troupe era quella che aveva girato, con Fellini Otto e mezzo; per risparmiare chiamò amici e conoscenti a recitare, al fianco di Clarabella Mastroianni e Stefano Satta Flores.
“A Palazzo San Gervasio non c’erano alberghi o pensioni – scrive ancora la regista nella sua biografia – non sapevamo dove far alloggiare la troupe e i collaboratori”. Si fecero prestare gratuitamente una casa del paese che l’Inps aveva appena realizzato per i contadini. “Lì organizzammo la nostra pensione: al primo piano c’erano le camere da letto, al pian terreno una piccola buvette”. “Per me la sconosciuta Basilicata nella quale mi apprestavo a girare il mio primo film era stata fin dall’infanzia la favolosa “Terra dei Re”, lontana, come lontani erano pure quei nonni dai roboanti nomi di mitici baroni svizzero-tedeschi. Ora scoprivo la verità: era una terra dove vivono uomini piccoli e forti come tronchi d’olivo e donne dal volto greco e con gli occhi saraceni, dentro case bianche di calce e grigie di pietre. Una terra ricca di leggende misteriose”.
“Probabilmente ho sentito l'attrazione per tutto ciò, data la mia natura ottimistica, energetica, esuberante, in contrappeso al sonno, all'apatia e alla remissività meridionali. Amo il Sud (sono nata a Roma; la mia discendenza di famiglia è svizzera) profondamente; la mia contemplazione è, pertanto, critica: non fine a se stessa, estetizzante. (…)
Gli attori, in questo caso, dovevano essere fisicamente fusi col loro ambiente naturale. Dopo 6 mesi di ricerche per i ruoli principali ne ho trovato uno a Bari, uno a Napoli e uno a Roma, perfettamente meridionali, bravissimi e disciplinati. Li ho scelti col fine di vedere sui loro volti tutta la "sonnolenza" del Sud: il retaggio di 150 anni di influenza spagnola e 90 di influenza borbonica.“
Il sorpasso
Regia: Dino Risi
Soggetto: Dino Risi, Ettore Scola, Ruggero Maccari
Sceneggiatura: Dino Risi, Ettore Scola, Ruggero Maccari
Fotografia: Alfio Contini
Scenografia e costumi: Ugo Pericoli
Montaggio: Maurizio Lucidi
Musiche: Riz Ortolani
Interpreti e personaggi: Vittorio Gassman (Bruno Cortona), Jean-Louis Trintignant (Roberto Mariani), Luciana Angiolillo (la moglie separata di Bruno), Catherine Spaak (Lilly, la figlia di Bruno), Claudio Gora (Bibi), Luigi Zerbinati (il commendatore), Franca Polesello (moglie del commendatore), Linda Sini (zia Lidia), Bruna Simionato (zia Enrica), John Francis Lane (Alfredo, l'avvocato)
Durata: 108'
Origine: Italia, 1962
Durante un ferragosto romano, Bruno, vitalissimo fanfarone che vive d'espedienti, incontra Roberto, un timido studente. Sono soli tutti e due, e il più giovane si lascia convincere a «fare un giro in spider». Comincia un viaggio (costellato da incontri, scenette, situazioni diverse), che porta i due fino a Castiglioncello, dopo essere passati anche per i luoghi d'infanzia di Roberto. Sono due giorni di follie, durante i quali Bruno esibisce tutto il suo repertorio di espedienti e di divertimenti, ovunque capiti, in mare o su una pista da ballo. Poi la corsa in macchina per il ritorno, durante la quale Roberto sembra cominciare a perdere l'abituale timidezza ...
Disse il regista che l'idea gli era venuta durante due viaggi per l'Italia («Bastava girare e ti entrava negli occhi lo spettacolo di quella corsa al benessere»). Il sorpasso ha rappresentato, meglio di tanti altri fatti culturali, l'autocoscienza del periodo e la fragorosa volgarità di una società che si credeva pronta al grande salto in avanti proprio mentre si producevano le prime (invisibili) crepe.
Vittorio Gassman e Dino Risi si sono incontrati per Il mattatore (1960), un film ispirato a una trasmissione Rai con lo stesso titolo nel quale l’attore sfodera tutto il suo talento di istrione trasformista. Il sorpasso è il primo film, per generale ammissione, in cui Gassman recita con la propria faccia: in I soliti ignoti era pesantemente truccato, la fronte abbassata con un toupet, il naso ingrossato, la bocca modificata con un paradenti da pugile (Marlon Brando, nel Padrino di Coppola, non ha inventato nulla).
La produzione è scarna, economicamente povera ma agilissima: piuttosto che come una commedia all’italiana (genere che solitamente fa largo uso di interni in teatro di posa e prevede una sceneggiatura di ferro), Il sorpasso è girato come un film della Nouvelle Vague o del cinema indipendente americano. Riprese dal vero, ampio spazio all’improvvisazione, coinvolgimento in numerose scene di parenti o amici di passaggio (una delle turiste tedesche inseguite da Bruno e Roberto è Annette Strøyberg, futura fidanzata di Gassman; nelle scene di Castiglioncello compaiono Vittorio Cecchi Gori, figlio del produttore, e Paola Gassman, figlia dell’attore).
Tutto è talmente «rubato» dalla realtà che le riprese cominciano addirittura senza il coprotagonista: Risi e Gassman girano l’inizio del film nei giorni intorno al Ferragosto del 1962, approfittando delle vie di Roma deserte e senza traffico. Jean-Louis Trintignant non è ancora stato scritturato. In tutte le prime scene – la breve inquadratura in cui Roberto si affaccia alla finestra, la macchina con i due a bordo che percorre il centro della città – c’è una controfigura. Trintignant viene scelto non solo per motivi di coproduzione con la Francia, ma anche perché corrisponde all’idea che Risi e Gassman si sono fatti dell’«antagonista»: bassino, esile, biondo mentre il protagonista è alto, atletico, bruno. Gli dà voce Paolo Ferrari, reduce tra l’altro dal doppiaggio di Franco Citti in Accattone (Pier Paolo Pasolini, 1961).
A dimostrazione che spesso le scelte artistiche derivano dalle circostanze produttive, l’importanza di Il sorpasso è strettamente legata al modo in cui il film viene realizzato. Dimostra l’assunto dal quale siamo partiti: il cinema come documento storico. Un futuro archeologo che vorrà, tra qualche migliaio di anni, capire cos’erano gli anni Sessanta in Italia ricaverà più informazioni da questo film che da mille libri di storia. Facciamo degli esempi. Nel prologo si vede una Roma che, più di mezzo secolo dopo, sembra uscire da una pellicola di fantascienza. La macchina guidata da Gassman vaga per strade deserte, moderne.
Gli anni Sessanta sono fisicamente presenti, «sono» il film: il Ferragosto che svuota la città in modo oggi inimmaginabile, i negozi chiusi, le finestre sbarrate, l’assenza di pedoni e di macchine parcheggiate. Un rito sociale allora irrinunciabile, che rendeva invivibili le grandi città per i pochi costretti a rimanerci e spediva tutti gli italiani in ferie in coincidenza con la chiusura dei ministeri e delle grandi fabbriche del Nord. Il quartiere scelto per le riprese: la Balduina, Roma Nord-Ovest, fresca urbanizzazione per la classe media, quasi una mimesi borghese dei più antichi Parioli limitrofi al centro. Quando Bruno parcheggia l’auto per bere da una fontanella, sembra che la città finisca, e in un certo senso è così: siamo in via Proba Petronia, dove ancora oggi la Balduina si interrompe, affacciandosi sul cuneo verde di Valle Aurelia e del Pineto Torlonia.
L’automobile è il terzo protagonista del film: è una Lancia Aurelia B24, una splendida e costosa decappottabile creata dalla Lancia (e progettata da Pininfarina) dal 1954. Nel 1962 è già una vettura vintage (tra l’altro, l’esemplare guidato da Gassman ha ritocchi alla carrozzeria) ed è la tipica auto «da rimorchio»: chi la guida è per definizione un maschio aggressivo, una simile vettura racconta il sogno di vacanze avventurose, di viaggi improvvisati, di vita «on the road». I suoi duelli con le altre auto, sulla via Aurelia che si chiama come lei, sono destinati alla sconfitta degli avversari: «Quando passa Bruno daje strada», grida Gassman a un incauto rivale che ha tentato di negargli il sorpasso. Sull’Aurelia c’è di tutto: furgoncini che ospitano famiglie in gita, berline più compassate, utilitarie che marcano la differenza di classe, moto con sidecar affollatissimi («er nonno non è voluto veni’?»), biciclette con ciclisti affaticati che Bruno sfotte crudelmente («Anvedi er girino, j’ha preso la cotta. Fatte la Vespa!»).
Storia d'Italia in 15 Film - Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)