Stagione 2020-2021
Tre colori - Film Rosso
Titolo originale: Trois couleurs: Rouge
Regia: Krzysztof Kieślowski
Soggetto: Krzysztof Kieślowski, Krzysztof Piesiewicz
Sceneggiatura: Krzysztof Kieślowski, Krzysztof Piesiewicz
Fotografia: Piotr Sobociński
Montaggio: Jacques Witta
Musiche: Zbigniew Preisner
Scenografia: Claude Lenoir
Interpreti e personaggi: Irène Jacob (Valentine), Jean-Louis Trintignant (Joseph Kern, il giudice), Frédérique Feder (Karin), Jean-Pierre Lorit (Auguste), Samuel Le Bihan (il fotografo), Ron Carey (il trafficante), Teco Celio (il barman), Jean Marie Daunas (custode del teatro), Bernard Escalon (il negoziante di dischi),, Elżbieta Jasińska (la moglie), Jean Schlegel (vicino), Marion Stalens (la veterinaria), Paul Vermeulen (amico di Karin), Benoît Régent (Olivier), Julie Delpy (Dominique Vidal), Juliette Binoche (Julie Vignon), Zbigniew Zamachowski (Karol Karol)
Produzione: Francia - Polonia - Svizzera, 1994
Durata: 99 min
Valentine, fotomodella ginevrina, conosce casualmente un ex giudice che intercetta le telefonate dei vicini. Dapprima scandalizzata, la ragazza è sempre più attratta dal "mistero" umano del magistrato. Intanto un suo giovane vicino di casa ripete inconsciamente le tappe della vita dell'anziano uomo di legge. Il destino è in agguato e interviene nelle esistenze di tutti i personaggi.
Perché rosso? Perché di qualche colore devono pur essere gli indizi (la jeep, il golf, il fiocco sull'antenna del telefono, la copertina del disco di Van Den Budenmajer, il guinzaglio del cane) che fanno presagire gli incontri tra i personaggi. Perché i legami di fraternità (terzo capitolo della trilogia) sono legami di sangue. Perché la fotografia gigante di Valentine, e l'ultima immagine che la richiama, non possono avere uno sfondo rasserenante, poniamo verde. Il rosso è il colore del dramma, e Film Rosso è il più drammatico della trilogia di Kieslowski.
E ancora: perché la vita del neo-giudice Auguste rispecchia quella del giudice in pensione (magnificamente) interpretato da Trintignant? Perché il giudice vecchio non si può innamorare di Valentine, ma un suo gemello giovane sì. Perché esistono due tipi di caso: un caso apparentemente casuale, quello di eventi imprevisti e senza logica (Valentine investe una cagna, trova del chewingum nella serratura di casa); e un caso apparentemente significativo, quello delle coincidenze e del déjà-vu. Il parallelismo Auguste-giudice appartiene alla seconda categoria. Il primo tipo di caso finisce sempre col portare da qualche parte (Valentine investe il cane e incontra il giudice; non riesce ad entrare a casa e rispondere al telefono, e fa ingelosire il fidanzato). Il secondo caso suggerisce l'esistenza di un disegno arcano, ma rimane statico, come un arabesco. Non significa nulla, o meglio: significa niente. Perché un film sul caso deve pur porre domande senza risposta, domande che è inutile formulare. Perché così è la vita.
È il migliore dei mondi possibili quello in cui Valentine sopravvive a un incidente per incontrare Auguste? Forse sì. Film Rosso finge di azzerare il senso della casualità del vivere, per ristabilire in realtà un senso ben forte. Film Rosso non poteva essere giallo. Auguste non poteva fare il medico, e avere una fidanzata fedele. Altrimenti addio film. lrène Jacob non poteva essere Juliette Binoche: ci voleva una faccia da agnellino che si ribella al non-senso del mondo, mica una faccia da invasata che scava le abissali profondità del reale. Sì, ma perché metterci in mezzo un fratello (anzi, ancora più complicato: un fratellastro) drogato? Perché il giudice gioca con le bretelle e rovescia l'acqua calda? Ridondanze di sceneggiatura, ma anche indizi che cercano di incrinare un quadro fin troppo compatto e chiuso nella propria perfezione autosufficiente. Ma forse c'è più di un motivo anche per questo.
Valentine, poco prima della fine, aiuta una vecchina decrepita a infilare una bottiglia in un apposito raccoglitore. Non mi ricordo se fosse la stessa vecchina che nessuno aiutava in Film Blu e in Film Bianco. Fatto sta che, alla fine della trilogia, alla fine del suo cinema (almeno secondo le promesse, o minacce), Kieslowski non ha potuto fare a meno di inserire una piccola parabola che minaccia di far crollare tutto il suo edificio costruito sul caso. Il senso c'è: siate più buoni, amatevi l'un l'altro. Anche il giudice misantropo alla fine coccola un cucciolo (tenerezza e cinguettii in sala). Fraternité. Niente di male, per carità. Nessuno ha detto che essere cattivi sia più poetico e profondo che essere buoni. Ma, come nel sopravvalutatissimo Decalogo 5, non ho bisogno che me lo si venga a dire. Non ho bisogno delle chiose e delle didascalie.
Film Rosso non propina nulla di altrettanto terrificante del videoclip sul tema dell'agapé (che non è l'amore-passione alla Bataille che si può trovare nei live show di Pigalle) che chiudeva Film Blu. Non c'è nemmeno quella fastidiosa trasfigurazione del quotidiano, per cui immergere una zolletta di zucchero in una tazzina diventa un poema visivo (ancora Film Blu), carico di tremore e meraviglia. È sorprendentemente sobrio e poco arzigogolato (malgrado certi inutili movimenti di macchina), per quanto resti un teorema che si autodimostra. In fondo è uno dei film più riusciti di questo regista. Ma se a tutti i perché si può rispondere appellandosi alla logica (o non-logica) interna del racconto, rimangono delle piste narrative senza seguito. Il fratellastro di Valentine si salverà dalla droga? Che fine ha fatto il festoso cane di Auguste? E Karin, la traditrice, che doveva andare in barca sulla Manica col suo bello: è stata spazzata via dalla tempesta?
Lasciare aperti questi quesiti, per ingenui e ininfluenti che siano, significa non uccidere un film, lasciarlo respirare. Anche il Dio di Leibniz, pur avendo previsto tutto fin dall'inizio, lasciava pur sempre all'uomo il libero arbitrio. E una cosa i demiurghi Kieslowski e Piesiewicz non hanno saputo o voluto stabilire, per fortuna: il giudice Trintignant è un demiurgo o una marionetta?
Alberto Pezzotta - SegnoCinema n. 68
Ma Kiéslowski non è un demiurgo che instaura l'ordine nell'universo dei suoi personaggi, anzi: lui si abbandona, come loro, al mistero stesso dell'esistenza, rappresentandolo nel modo più naturale, attraverso una rete di "segni, segnali/ ben poco importa se oscuri". Queste parole sono tratte da una poesia, "Amore a prima vista" di Wislawa Szymborska, che viene letta per caso da Kiéslowski dopo l'uscita del film e che è da lui commentata così: "E' una poesia che parla esattamente di Film Rosso. Ed è la prova che due persone che non si conoscono, non hanno nulla a che fare l'una con l'altra...sentono come importante nello stesso tempo una stessa cosa, pensano che la stessa cosa possa costituire l'oggetto di una poesia o di un film. Come questo succeda, non lo so." Complementare al motivo esistenziale di Kiéslowski è quello etico dello sceneggiatore e sodale Piesiewicz: "La fraternità è quel terzo elemento a cui ci avviciniamo in fondo con ottimismo, che diamo come possibilità, forse un po' idealisticamente, ma che cosa si può fare oggi, se non farsi carico di un sentimento come questo e portarlo avanti?".
Poco dopo l'uscita del Film Rosso si è invece ritirato a vita privata, dichiarando di non aver altro da dire come regista. Come in uno scherzo tragico del destino in uno dei suoi film, subito dopo un primo attacco di cuore lo ha costretto a una degenza casalinga, poi un secondo l'ha portato via, il 13 marzo del 1996.
Ai confini della realtà
"Il luogo è qui. Il tempo è ora. E il viaggio nelle ombre al quale stiamo per assistere potrebbe essere il nostro viaggio."
Nel lontano 2 ottobre 1959, queste parole introducevano il pubblico americano al primo episodio di Ai confini della realtà (The Twilight Zone), una serie televisa che si sarebbe rivelata diversa da ogni altra prodotta fino allora. Ai confini della realtà è opera di Rod Serling: ospite di ogni episodio (in video o in voce) con il suo inconfondibile stile, Serling ne è l'ideatore e ha sceneggiato la maggior parte delle storie.
Anche se Ai confini della realtà ha debuttato sugli schermi statunitensi nel 1959, le sue origini risalgono a due anni prima. All'epoca Serling era già un affermato sceneggiatore; alle sue spalle aveva tre premi Emmy e una lunga serie di successi. Da un punto di vista professionale Serling poteva certamente ritenersi soddisfatto, ma non lo era altrettanto da un punto di vista creativo. In numerose occasioni le sue sceneggiature avevano subíto pesanti modifiche imposte dagli sponsor, sempre timorosi di offendere alcune fasce di potenziali clienti. Nel migliore dei casi le modifiche si limitavano all'ambientazione della storia, o ad alcuni nomi di personaggi, ma in altre occasioni i cambiamenti richiesti furono sostanziali. Ad esempio, una compagnia di assicurazioni pretese l'eliminazione del suicidio di uno dei protagonisti, dato che i casi di suicidio generano spesso dispute legali da un punto di vista assicurativo. L'ingerenza degli sponsor era molto più limitata nelle serie di ambientazione fantastica, visto che i temi trattati venivano percepiti come lontani dalla realtà. Queste considerazioni spinsero Serling a sviluppare una serie televisiva antologica di ambientazione fantasy e fantascientifica. Nel 1957 presentò la sua idea all'emittente CBS, accompagnadola con la sceneggiatura per un eventuale episodio pilota intitolato "The Time Element".
I dirigenti dell'emittente erano estremamente scettici riguardo alle potenzialità della serie, e "The Time Element" fu presto archiviato. L'anno seguente la sceneggiatura venne rispolverata per un'altra serie antologica della CBS, diventando un episodio di Westinghouse Desilu Playhouse (1958-1960).
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L'episodio fu uno dei più seguiti dell'intera stagione televisiva e Serling ottenne il via per la produzione di Ai Confini della realtà. Durante la prima stagione furono realizzati 36 episodi. Accolta da ottime recensioni, la serie tuttavia non incontrò immediatamente il favore del pubblico, e rimase a rischio di chiusura anticipata, almeno fino a novembre, quando andò in onda uno degli episodi più amati di tutte le stagioni, "Time Enough at Last", con Burgess Meredith nei panni dell'ultimo uomo rimasto sulla Terra dopo un disastro nucleare: amante dei libri, pensa che si consolerà con la lettura, ma rompe i suoi occhiali e non c'è proprio nessuno che glieli possa riparare.
Nella primavera del 1960, Ai confini della realtà, poteva vantare fan club in 31 differenti stati degli USA. Ogni settimana la redazione riceveva almeno 500 lettere e 50 sceneggiature di autori più o meno affermati che si avventuravano nel mondo del fantastico. La serie aveva mostrato di essere intelligente e raffinata, e il pubblico lo aveva apprezzato. Serling aveva vinto la sua battaglia guadagnandosi un quarto premio Emmy.
Ai confini della realtà approdò in Italia sull'emittente di stato il 14 aprile 1962 con uno dei migliori episodi della prima stagione, il già citato "Tempo di leggere" ("Time Enough at Last"). Negli anni seguenti la RAI propose gli episodi in maniera piuttosto discontinua, tanto che, trattandosi di una produzione antologica, non venne identificata immediatamente dal pubblico come un'unica serie. Tra il 1962 e il 1971 la RAI trasmise in tutto 12 episodi della prima stagione. Successivamente, Ai confini della realtà scomparve dai teleschermi dell'emittente nazionale per ricomparire nei primi anni '80 su Italia 1. In questa occasione furono doppiati e trasmessi tutti i rimanenti 24 episodi della stagione d'esordio.
[Aleksandar Mickovic e Marcello Rossi - Note di presentazione del cofanetto DVD]
The Office
Titolo originale: The Office
Ideatore: Ricky Gervais e Stephen Merchant
Interpreti e personaggi: Ricky Gervais (David Brent), Martin Freeman (Tim Canterbury), Mackenzie Crook (Gareth Keenan), Lucy Davis (Dawn Tinsley), Patrick Baladi (Neil Godwin), Ralph Ineson (Chris Finch), Stirling Gallacher (Jennifer Taylor-Clarke)
Produzione: Regno Unito, 2001
Impiegati scapestrati e svogliati si inventano ogni giorno escamotage per mandare avanti la baracca, rimediando come possono alle gaffe e alle assurdità realizzate dal loro imbarazzante capo ...
Ideata come mockumentary da Ricky Gervais insieme a Stephen Merchant, The Office è una sitcom britannica incentrata sulle vicende quotidiane di un gruppo di impiegati di una filiale di una fittizia impresa cartaria, la Wernham Hogg. Ambientata a Slough, vicino Londra, è girata appunto come un falso documentario che accanto a intere scene di vita nell’ufficio riprese senza interruzioni introduce interviste in cui i singoli personaggi commentano il proprio lavoro e i colleghi. Tutto ruota attorno al personaggio dell’imbarazzante capo David Brent, convinto di essere imbattibile sul lavoro e nella vita privata ma in realtà totalmente inetto; i suoi continui tentativi di primeggiare rispetto ai responsabili degli altri settori sono sempre causa di ritardi nelle consegne, figuracce con i clienti, pasticci con i fornitori.
Tra gli impiegati dell’ufficio c’è chi cerca di lavorare in modo pulito, lineare e corretto e chi vive nella convinzione che lui sia il miglior capo possibile, allargando a macchia d'olio l’estensione dei suoi errori, specie durante i corsi di aggiornamento per gli impiegati che, in mano a David Brent, diventano vere e proprie farse senza alcuna utilità.
Il personaggio di culto di David Brent è entrato a tal punto nell’immaginario collettivo che Gervais ne ha sviluppato, in seguito, un film, una serie di video su YouTube in cui Brent insegna a suonare la chitarra, due speciali commissionati da Microsoft UK e un cortometraggio.
The Kingdom - Il regno
Titolo originale: Riget
Regia: Lars von Trier
Soggetto: Tómas Gislason, Lars von Trier, Niels Vørsel
Sceneggiatura: Tómas Gislason, Lars von Trier, Niels Vørsel
Fotografia: Eric Kress
Montaggio: Molly Marlene Stensgård, Jacob Thuesen
Musiche: Joachim Holbek
Interpreti e personaggi: Ernst-Hugo Järegård (Helmer), Kirsten Rolffes (Sigrid Drusse), Holger Juul Hansen (Moesgaard), Søren Pilmark (Krogshøj), Ghita Nørby (Rigmor), Jens Okking (Bulder), Otto Brandenburg (Hansen), Annevig Schelde Ebbe (Mary), Baard Owe (Bondo), Birgitte Raaberg (Judith), Peter Mygind (Mogge), Solbjørg Højfeldt (Camilla), Udo Kier (Aage Krüger), Nis Bank-Mikkelsen (Prete), Ole Boisen (Christian), Lea Risum Brøgger (madre di Mary), Laura Christensen (Mona), Paul Hüttel (Stenbaek), Søren Lenander (guardia)
Produzione: Danimarca, 1994
Nessun essere vivente ancora lo sa, ma la porta del Regno sta per aprirsi.
Il “regno” cui fa riferimento il titolo è il nome di un ospedale danese, il più avanzato tecnologicamente, fiore all’occhiello della sanità e simbolo della modernità del paese. Costruito sopra un’antica palude dove i tintori andavano a sbiancare i panni, come ci ricorda il prologo, è il teatro di una battaglia secolare, in cui scienziati e medici avrebbero sconfitto ignoranza e superstizione, sostituendole con le certezze della scienza. Ma qualcosa di sinistro sta per risvegliarsi, una forza oscura e senza pace che infesta le tristi stanze dell’ospedale: una medium ascolta il pianto di una bambina provenire da un ascensore vuoto…
Il prigioniero
Titolo originale: The Prisoner
Ideatore: Patrick McGoohan, George Markstein
Regia: Patrick McGoohan, Pat Jackson, Don Chaffey, David Tomblin
Musiche: Ron Grainer
Fotografia: Brendan J. Stafford
Interpreti e personaggi: Patrick McGoohan (Numero 6), Peter Swanwick (Supervisore), Guy Doleman (Numero 2 ep. 1), Leo McKern (Numero 2 ep. 2 e 17), Nadia Gray (Nadia ep. 2), Colin Gordon (Numero 2 ep. 3), Kenneth Griffith (Il presidente ep. 17), Angelo Muscat (Il maggiordomo nano)
Produzione: Regno Unito, 1967-1968
Durata: 50' a episodio
Un agente dei servizi segreti inglesi presenta le proprie dimissioni ai superiori per motivi non meglio precisati. Una volta giunto presso la propria abitazione viene narcotizzato con del gas, rapito e portato in un villaggio dalla locazione indeterminata e tenuto prigioniero all'interno dei propri confini. Dell'agente dimissionario in questione non è conosciuto il suo nome, ma all'arrivo del villaggio viene identificato con un numero, il Numero 6. A capo del luogo c'è il Numero 2 che dirige le operazioni al villaggio/prigione e prende direttive solo ed unicamente dal Numero 1, il quale non appare mai.
L'intera serie è incentrata da una parte nei ripetuti tentativi di fuga del Numero 6, dall'altra di estorcere con ogni mezzo le motivazioni che hanno portato le dimissioni del Numero 6 dal proprio lavoro. La battaglia si sviluppa ad ogni puntata nella lotta tra il Numero 6 ed il Numero 2, o meglio sarebbe dire "i Numeri 2", giacché il ruolo di questo personaggio non è quasi mai ricoperto sempre dallo stesso attore. I numeri 2 anzi si alternano al comando, o perché sostituiti da un altro Numero 2, o dalla rinuncia a ricoprire tale ruolo, o semplicemente avvicendati per ragioni sconosciute. Il protagonista quindi interagisce sempre (ultimo episodio a parte) con i vari Numeri 2 che si alternano. Di conseguenza ogni duello è sempre con il Numero 2 e mai con il Numero 1, che rimane comunque uno degli obiettivi principali del prigioniero Numero 6: scoprire la sua identità!
Fin dalla sua concezione, Il prigioniero propone un messaggio fortemente distopico, fedele al quel filone science-fiction in cui vengono tratteggiate società future politicamente oppressive in cui gli scrittori inglesi eccellono, basti citare George Orwell con la sua ormai celeberrima società del Grande Fratello di 1984 (1949), ma anche il geniale Anthony Burgess con le sue deliranti e iperrazionalizzate società di Arancia Meccanica (1962) e Il seme inquieto (1962).
A differenza di Orwell, McGoohan ritiene che la dittatura e lo stato totalitario sarano più subdoli e sottili: non ricorreranno alle armi per affermarsi, non siederanno esplicitamente sul trono. Resteranno invece nell'ombra, ineffabile come il Numero Uno. E il biopotere profilato dal serial - riecheggiano ancora echi foucaultiani nella filosofia di McGoohan e della sua creatura televisiva - è un apparato di condizionamento e controllo molto più sottile dello stato totalitario moderno, un apparato che si insinua sottopelle e che determina la stessa antropologia, la stessa struttura esistenziale degli esseri umani.
Non è certo un caso se la serie, quando venne trasmessa, suscitò tanto scalpore e sollevò un nugolo di polemiche. Siamo nel 1967, un periodo in cui una nuova coscienza sociale si stava imponendo ma non era ancora esplosa nella sua foga contestataria e non faceva ancora parte della cultura mainstream. Tantomeno qualcuno poteva immaginarsi che quelle tematiche sarebbero diventate la nervatura esplicitamente polemica di un prodotto televisivo.
La tv è il mezzo di comunicazione di massa per eccellenza e la messa in onda di una serie come Il prigioniero che parla apertamente di controllo delle masse, spersonalizzazione dell'individuo, gestione delle informazioni personali, complotti di stato, utilizzo di droghe, torture psicologiche era davvero rischioso.
Tutto questo testimonia altresì quanto l'idea concepita da McGoohan fosse rivoluzionaria e in anticipo sui tempi, soprattutto per le tematiche: l'utilizzo della televisione e dei mezzi di comunicazione come strumento di controllo; la realtà virtuale come modo di disorientare e stordire; lo studio e l'istruzione come mezzo di controllo della conoscenza; la tecnologia e la scienza al servizio della manipolazione; le droghe, l'emarginazione e la tortura psicologica per piegare l'individuo; la serializzazione e l'annullamento della persona in favore dell'unità numerica. Di tutto questo si occupava un serial televisivo e ce n'era abbastanza perché molti si potessero preoccupare.