Stagione 2020-2021
L'altra Heimat - Cronaca di un sogno
L'altra Heimat - Cronaca di un sogno
Titolo originale: Die andere Heimat - Chronik einer Sehnsucht
Regia: Edgar Reitz
Sceneggiatura: Edgar Reitz, Gert Heidenreich
Fotografia: Gernot Roll
Montaggio: Uwe Klimmeck
Musiche: Michael Riessler
Scenografia: Toni Gerg, Hucky Hornberger
Costumi: Esther Amuser
Interpreti e personaggi: Jan Dieter Schneider (Jakob Simon), Antonia Bill (Jettchen Niem), Maximilian Scheidt (Gustav Simon), Marita Breuer (Margarethe Simon), Rüdiger Kriese (Johann Simon), Philine Lembeck (Florinchen), Mélanie Fouché (Lena Zeitz), Eva Zeidler (Großmutter), Reinhard Paulus (Unkel), Martin Haberscheidt (Fürchtegott Niem)
Produzione: Germania, Francia 2013
Durata: 98 + 124 min
Sullo sfondo della Germania rurale di metà Ottocento, quando interi villaggi si spopolavano per fame e povertà e l'emigrazione nel lontano Sud America era all'ordine del giorno, due fratelli un giorno si ritrovano di fronte al più difficile dei dilemmi: restare o lasciare la propria terra. Jacob, insolitamente romantico per essere un ragazzo di campagna, sogna di trovare il paradiso in Brasile e fa piani con il suo grande amore, la figlia di uno scalpellino del suo villaggio. Il ritorno del fratello Gustav dal servizio militare dà però origine a eventi che daranno una direzione completamente diversa ai progetti di Jacob.
Durante le mie ricerche storiche per la Trilogia di Heimat, mi sono trovato di fronte a un aspetto al quale gli storici non avevano posto alcuna attenzione: i tedeschi che emigrarono a metà del XIX secolo appartenevano alla prima generazione di contadini alfabetizzata. La Prussia, le cui frontiere inglobavano dal 1815 l'Hunsrück avevano introdotto sin da subito l'istruzione obbligatoria per tutti. La maggior parte dei bambini nati dopo il 1810 imparò quindi a leggere e scrivere. Nelle regioni rurali in particolare, l'alfabetizzazione progredì talmente tanto in pochi anni che apparve una generazione nuova: questi giovani ne sapevano più sul mondo di quanto tradizione, catechismo e malizia contadina potessero trasmettere loro. Le conoscenze in geografia, in storia e in politica da allora avevano fatto passi da gigante, mentre parallelamente la gente era sempre più consapevole della ristrettezza del proprio paese e della mancanza di prospettive. All'epoca del romaticismo tedesco e del risveglio degli ideali di libertà regnava un clima intellettuale e sociale nuovo, nel quale la grande ondata di emigrazione innescò la sua dinamica.
La mia ipotesi è che la conoscenza è stata radicalmente modificata dalla lettura. Anche il contadino dell'Hunsrück ora sapeva che la terra era rotonda, che esistevano altri climi e dei paesi dove i regimi di proprietà erano diversi. Queste nuove conoscenze sui popoli lontani hanno anche stimolato l'immaginazione della gente: si è visto diffondersi un immaginario caratterizzato dal romanticismo e l'idealizzazione del reale, che trovava le sue fonti nell'abbondante "letteratura di viaggio".
A questo si aggiungeva il fatto che il Brasile cercava di attirare gli emigranti. L'imperatore Dom Pedro II inviava le sue truppe di reclutatori in Europa, in particolare in Germania, nelle regioni in cui vivevani gli agricoltori che erano anche artigiani qualificati. Nell'Hunsrück vi erano molti piccoli proprietari agricoli indipendenti che faticavano a nutrirsi con la produzione delle loro fattorie e dovevano quindi fare un secondo lavoro: erano contadini e al contempo calzolai, fornai, fabbri, maniscalchi, sellai, carrai o bottai. Questi contadini/artigiani erano i coloni perfetti di cui il Brasile aveva bisogno.
Abbiamo difficoltà, oggi, a capire ciò che significa veramente l'emigrazione, dato che attualmente siamo noi stessi diventati un paese di immigrazione. Vediamo arrivare a casa nostra una folla di persone originarie delle regioni più povere dell'Africa e dell'Asia, che cercano di costruire qui una nuova vita. Lasciare il proprio mondo comporta una forza enorme. Tagliare il legame affettivo non solo con i propri cari ma anche con il paesaggio familiare e con tutte le proprie abitudini di vita è molto difficile, e non tutti ne sono capaci. Ma quando la partenza diventa un movimento di massa, tutti si rendono conto che questo legame è diventato più debole. Quel giorno, sono tutti in grado di dire semplicemente: "Anche io parto". Questo pensiero ha dato una direzione nuova al mio lavoro sul soggetto: Jakob Simon, un giovane contadino dell'Hunsrück che legge libri e si crea il proprio universo di sapere e di sogni. La prima stesura aveva come titolo "Il paradiso in testa". In questo modo non volevo solo alludere ai sogni di Jakib, ma anche a quelle rappresentazioni di un mondo migliore che la lettura dei romanzi di avventura da nascere nella sua mente.
Il nostro film parla di sentimenti e di fatti. Della capacità dell'uomo nell'indirizzare la propria vita in funzione delle proprie utopie, nell'immaginare un mondo interiore, nel liberarsi dalle costrizioni sociali apparentemente imposte dal destino, ecco cos'è ai nostri occhi uno degli slanci più produttivi.
Dedichiamo questo film a tutti coloro che inseguono i propri sogni.
Edgar Reitz
Il segno del comando
Regia: Daniele D'Anza
Ideatore: Flaminio Bollini e Dante Guardamagna
Sceneggiatura: Giuseppe D'Agata, Flaminio Bollini, Dante Guardamagna e Lucio Mandarà
Fotografia: Marco Scarpelli
Scenografia: Nicola Rubertelli
Costumi: Giovanna La Placa
Musiche: Romolo Grano, la sigla Cento campane è cantata da Nico Tirone
Interpreti e personaggi: Ugo Pagliai (Lancelot Edward Forster), Carla Gravina (Lucia), Massimo Girotti (George Powell), Carlo Hintermann (Lester Sullivan), Rossella Falk (Olivia), Paola Tedesco (Barbara), Franco Volpi (principe Raimondo Anchisi), Augusto Mastrantoni (col. Marco Tagliaferri), Angiola Baggi (Giuliana, nipote del colonnello), Andrea Checchi (commissario Bonsanti)
Produzione: Italia, 1971
Durata: 360 min
Il professor Forster, docente di letteratura inglese a Cambridge, è alle prese con la traduzione di un diario di Lord Byron, scritto durante il soggiorno romano del 1817. Durante la traduzione, il professore viene invitato nella Capitale da un misterioso pittore che lo sfida a cercare una piazza, citata da Byron nel diario, che Forster ritiene essere un luogo non esistente, ma inventato dal poeta. Il pittore invece allega una foto della piazza alla sua missiva e riesce a provare che esiste realmente. Quando Forster viene invitato a partecipare ad un convegno a Roma, decide di recarvisi, incuriosito dalla lettera del pittore ...
Quale mistero si celava dietro l'uscio di una vecchia casa romana, in via Margutta 33? Gli italiani si appassionarono, si impaurirono, si intrigarono. Il Segno del comando paralizzò il paese, come un grande evento sportivo o di cronaca. Epoure non produsse figli, né figliastri. A lungo la Rai cercò nei mesi seguenti il successo del programma, un soggetto di analoga forza e complessità. La Rai, come una grande major, cercava un "sequel" di mistero ambientato in Italia. Io stesso ricordo di aver lavorato a una storia. Mia madre, che lavorava in Rai, mi disse di questa affannosa ricerca, in corso ai piani alti di viale Mazzini. Io sedicenne mi chiusi in una stanza per due giorni, spremetti a forza le meningi, evocai tutte le paure che conoscevo. Scrissi pagine e pagine con un pennarello blu su un quaderno importante che aveva la copertina di cartone duro, verde. Mia madre, amorevolmente, mi fissò un appuntamento con un dirigente Rai. Andai, pieno di audacia giovanile, di paura, di timidezza con il mio quaderno importante tra le mani. Mi sedetti, emozionato, di fronte a un signore autorevole. Gli lessi d'un fiato la storia, più confusa che gotica, di un incidente di macchina, di una perdita di memoria. Quell'uomo mi guardò intenerito e gentile. Si chiamava Bruno Gambarotta e molti anni dopo, cortese, spiritoso, elegante come allora, lo ritrovai sugli schermi che conduceva la nuova edizione di Lascia o raddoppia? o faceva da sostegno ad Adriano Celentano in Fantastico. Non era un sedicenne emozionato che poteva pareggiare con il più bel racconto originale di mistero che la Rai abbia mai trasmesso. Il Segno del comando era molte cose insieme. Era, intanto, una grande storia tutta giocata sul tempo e sul mistero e sul mistero del tempo.
Un professore inglese torna a Roma per una conferenza su Byron. Si reca all'indirizzo di un pittore che gli aveva scritto, in via Margutta 33. In quella vecchia casa c'è, invece, una giovane donna, amica del pittore. Con lei il professore parla, della sua bellezza subito si invaghisce. Solo che la affascinante Lucia, come l'artista Marco Tagliaferri, sono morti da almeno cento anni. E il pittore è nato nello stesso giorno del professor Foster, e la data della sua morte coincide a cento anni di distanza, con quella fissata per la conferenza su Byron. Si dipana così una storia che risale ancora a un altro secolo prima e a un orafo nato e morto nella stessa data. Il racconto avvinceva come un giallo alla Durbridge ma, in più, c'era il fascino sinistro e raggelante dell'atmosfera di Belfagor.
Ogni tanto un bel brivido di gelo passava sulla schiena degli spettatori: come dimenticare il volto trasfigurato della Gravina, la bella Lucia, coperto da un velo nero e la sua voce allucinata in una seduta spiritica volta a evocare il pittore Tagliaferri? Tutto si svolgeva in una Roma magica. Piazze quattrocentesche, grandi palazzi signorili, vicoli medioevali. E tutti i frammenti del racconto erano legati tra loro da un brano di musica antica, da un quadro dell'Ottocento, da una citazione di Byron. Così Il Segnio del comando si trovava ad essere, con i suoi continui rimandi "alti", una sorta di "caccia al tesoro" nel tempo, uno straordinario gioco di date, di oggetti, di apparizioni che denunciavano, confondevano la linea di demarcazione tra passato e presente. Il Segno del comando aveva, ragione essenziale del suo fascino, una doppia originalità: attraversava, nel racconto, tutti i generi della cultura classica: la musica di Baldassare Vitali, i poemi di Byron "che aveva scoperchiato l'inferno", i quadri di Tagliaferri. E, soprattutto, riassumeva, nel linguaggio del racconto, tutti gli stereotipi classici del mistery: spionaggio, poliziesco, gotico. Una doppia complessità che rendeva il racconto assai strutturato e la stessa scelta di un doppio finale, razionale e irrazionale, corrispondeva alla magnifica e misteriosa ambiguità del racconto. Quella ambiguità a cui la Gravina dava un volto e uno sguardo e Pagliai un assorto stupore. Il programma, apparentemente così sofisticato, era pieno di intelligenti strizzate d'occhio a un pubblico più popolare: dalla sigla musicale Din-don cantata da Lando Fiorini e che troppo assomigliava alla tradizionale A tocchi, a tocchi, fino al luogo di nascita del professor Foster, quella piccola cittadina della città inglese, Middlesborough che ci era costata, solo cinque anni prima, l'umiliazione della sconfitta calcistica con la Corea del dentista Pak-doo-ik.
Il Segno del comando non ha partorito in seguito né figli, né mostriciattoli. E' stato uno di quei casi per i quali valeva la secca certezza di Ennio Flaiano: "Ogni successo è un malinteso". In questo caso, un misterioso, felice, malinteso.
Walter Veltroni - I programmi che hanno cambiato l'Italia. Quarant'anni di televisione (Feltrinelli, 1992)
Angeli in America
Titolo originale: Angels in America
Regia: Mike Nichols
Ideatore: Tony Kushner
Sceneggiatura: Tony Kushner
Fotografia: Stephen Goldblatt
Musiche: Thomas Newman
Scenografia: Stuart Wurtzel
Costumi: Ann Roth
Interpreti e personaggi: Al Pacino (Roy Cohn), Meryl Streep (Hannah Pitt/Ethel Rosenberg/Rabbino/Angelo dell'Australia), Patrick Wilson (Joe Pitt), Mary-Louise Parker (Harper Pitt), Emma Thompson (infermiera Emily/Angelo dell'America), Justin Kirk (Prior Walter), Jeffrey Wright (sig. Lies/Norman Ariaga/Angelo dell'Europa), Ben Shenkman (Louis Ironson/Angelo dell'Oceania), James Cromwell (Henry), Michael Gambon (antenato di Prior Walter), Simon Callow (antenato di Prior Walter)
Produzione: USA, 2003
Durata: 352 min
Miniserie HBO, Angels in America è tratta dall'omonima pièce (premio Pulitzer, Tony Award) di Tony Kushner che portò per la prima volta il teatro Usa a tematica omosessuale a uno straordinario successo commerciale presso un pubblico indistinto («voglio essere considerato uno scrittore omosessuale e spero di poterlo essere anche quando non ci saranno persone gay nelle mie opere» affermò il drammaturgo in una conversazione nel 1994).
Nell'America anni 80, colpita dall'AIDS, si narrano da un lato le vicende private di Louis e del suo personaggio Prior - che si scopre affetto dalla malattia -, dall'altro quelle dei coniugi Pitt, un avvocato mormone e una casalinga depressa.
A queste si intrecciano quelle di altri personaggi - tra cui la figura storica dell'avvocato Roy Cohn (Al Pacino, gigantesco) che, durante la caccia alle streghe maccartista, fece condannare alla sedia elettrica Ethel Rosenberg (il suo fantasma è interpretato da Meryl Streep) - a comporre l'acido affresco di una nazione impigliata nei suoi paradossi.
Come il dramma (in Italia memorabile - e premiatissimo - l'allestimento di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani), la serie si presenta in forma di dittico. La prima parte (Si avvicina il millennio), più cupa e pessimista, è ambientata in un mondo al declino: le coppie si disgregano, il virus dilaga, la solitudine è totale, il sistema è marcio. La seconda sezione (Perestroika) illustra una prospettiva inedita: i personaggi si incrociano secondo dinamiche impreviste, lo scambio è positivo, si creano nuove comunità, lo sguardo si rivolge con fiducia al futuro.
La rilettura tv di Mike Nichols mantiene la struttura dell'opera teatrale e il suo stilizzato, consapevole linguaggio camp, basandosi su lunghe scene di dialogo e sulla spiazzante alternanza di situazioni realistiche - a volte nei toni di una strampalata soap, altre in quelli di una tragedia moderna - a divagazioni ed esperienze visionarie. Se il fondo delle vicende è indiscutibilmente doloroso, la scrittura suona brillante, con punte persino demenziali, a spostare il lavoro su un terreno ibrido, felicemente inetichettabile. E il regista assecondando la scelta antinaturalistica di Kushner, la esalta attribuendo ruoli doppi e tripli agli attori principali (attenzione al rabbino Meryl Streep), come avveniva a teatro (anche in Italia).
...
E' proprio il modo puntiglioso in cui Kushner prima squaderna i temi (il sottotitolo dell'opera è, del resto, A Gay Fantasia on National Themes) e poi, strategicamete, li polverizza che Nichols riesce a dominare, conducendo l'escalation dello strazio e il successivo cammino della speranza a un potente crescendo.
Supportato da attori tutti da applauso, Angels in America anche su piccolo schermo rimane dramma strabordante, che narra, attraverso uno spettro frammentato ad arte, di un'epoca ipocrita che chiuse gli occhi di fronte a un mostro maculato di nome AIDS e rimase sorda, per troppa colpa (e, solo di rado, per troppa innocenza) al suono delle trombe dell'apocalisse a venire.
Luca Pacilio, Film TV
Tre colori - Film Blu
Titolo originale: Trois couleurs: Bleu
Regia: Krzysztof Kieślowski
Soggetto: Agnieszka Holland, Słavomir Idziak, Krzysztof Kieślowski, Krzysztof Piesiewicz, Edward Zebrowski
Sceneggiatura: Krzysztof Piesiewicz, Krzysztof Kieslowski
Fotografia: Sławomir Idziak
Montaggio: Jacques Witta
Musiche: Zbigniew Preisner
Scenografia: Bryan Ryman
Costumi: Claude Lenoir
Costumi: Virginie Viard, Naima Lagrange
Trucco: Valérie Tranier, Jean-Pierre Caminade
Interpreti e personaggi:
Juliette Binoche (Julie Vignon), Benoît Régent (Olivier Benoît), Emmanuelle Riva (madre di Julie), Florence Pernel (Sandrine), Charlotte Véry (Lucille), Hélène Vincent (giornalista), Philippe Volter (agente immobiliare), Claude Duneton (medico), Hugues Quester (Patrice)
Produzione: Francia - Polonia - Svizzera, 1993
Durata: 97 min
Tutto è già accaduto. Il successo di lui, i momenti felici, la “loro" vita insieme. Lui, compositore di successo, giovane e brillante; lei, la sua compagna, la loro bambina. La strada che si lasciano alle spalle è breve è infinitamente lunga: forse compiuta. L'incidente è in agguato, persino prevedibile. L'auto esce di strada. La bambina e il marito muoiono. Per lei inizia l'educazione al dolore.
Leone d'oro a Venezia (ex-aequo con "America oggi" di Altman) e Coppa Volpi a J. Binoche.
Il blu è un colore immobile. Non viene dall'azzurro, non va verso il nero. Tra i colori della bandiera francese, Kieslowski ha scelto il blu per la sua nuova trilogia. È un colore freddo, che si chiude in se stesso. Come la protagonista del film. Quello che Kieslowski avrebbe potuto raccontare è prima del film e potrebbe iniziare dopo. Nel film c'è la ricostruzione di una persona all'interno di una personalità. È un film logicamente costruito sul non detto, su quello che non si può dire. Non per pudore, ma per realismo, o per consapevolezza dei limiti stessi del cinema, di un film. Film Blu è la descrizione partecipe (qualche volta compiaciuta) di un percorso interiore, dell'elaborazione personale di un dolore.
Così come in molti episodi del Decalogo lo spunto di partenza è minimo, volutamente quotidiano. Piesiewicz, lo sceneggiatore-avvocato elabora una piccola storia di vita, Kieslowski sfrutta ogni vuoto, ogni debolezza del racconto per trasformarla in punto di forza di un film solido, definitivo. In Film Blu Juliette Binoche ci trascina con sé dentro la sua assenza (dal film, dalla vita, dalle relazioni con gli altri), senza escluderci. Il film sta tutto nel materializzarsi progressivo della solitudine che diventa una forza fisica, tangibile, acquista un proprio corpo nella misura in cui ne abbandona un altro. Lentamente, la Binoche ed il suo personaggio diventano un'astrazione, perdono corporeità, ma non diventano un'idea, si trasformano in un sentimento. Indefinibile, non ancora classificato.
Vivono, la protagonista e il suo sentimento, dentro, la violenta assenza degli altri, che loro stessi hanno fortemente voluto. L'attrice ed il suo personaggio hanno la stessa inaccettabile distanza di chi non conosce destinatari né destinazioni per i suoi pensieri. Gli scenari di Kieslowski-Piesiewiez sono altrettanti paesaggi dopo battaglie che nessuno ha combattuto. C'è un'aria di sconfitta iniziale, che non può che tradursi - al minimo scarto - in un piccolo riscatto.
Il film suscita diverse domande, sul piano della 'storia': è vero che è lei, la moglie discreta e bellissima, che ha sempre composto le musiche del marito? E, se è vero, perché lo ha fatto? Che cosa l'ha spinta a rimanere nell'ombra? Come si comporterà, adesso? Kieslowski propone questi interrogativi, ma non li porta fino in fondo. Preferisce proseguire nella catalogazione paziente degli istanti in cui si consumano intere esistenze, in cui si raggrumano i rapporti mancati, si sciolgono i legami inventati. "L'incerta chiarezza" poetica di Kieslowski, già messa in rilievo dalla critica a proposito del Decalogo si fa qui più solenne, meno elementare. Anche un po' più retorica, probabilmente, rispetto a La doppia vita di Veronica.
Di Film Blu si può mettere in dubbio l'ambizione eccessiva del presupposto iniziale: raccontare di un personaggio che si ritira dentro un nulla, un'atmosfera soltanto. Ma non si può non rimanere colpiti dalla sicurezza con la quale il regista porta avanti il suo progetto, senza esitazioni, con alcuni momenti di altissimo stile. Uno stile che ha bisogno, per esaltarsi, di sceneggiature particolari, sempre più semplici, minime. Lo stile di Kieslowski sta tutto nel contrasto che il regista forza, evoca, provoca - tra la vita dei suoi personaggi e il film che la racconta. I film di Kieslowski accolgono i personaggi; sono l'unica realtà che gli resta mentre la vita li disperde. La vita li fa scivolare via (gli uni rispetto agli altri, tutti insieme rispetto alla vita stessa) e loro non oppongono resistenza. Ma non c'è rassegnazione, piuttosto la certezza di un universo altro, il film appunto, che li lega, li tiene ancora dentro un mondo non più dispersivo, non più infinito.
La fuggevolezza del tutto trova un riscatto nella solidità di ogni inquadratura, nel suo porsi come un qualcosa di solido, un porto sicuro. Se nella vita che descrive i personaggi vanno verso un destino incerto, il film continuamente ripete loro che tutto può essere più bello. Non c'è simbolismo, in Kieslowski, nè una poeticità astratta. C'è piuttosto la capacità di dare ad ogni elemento del film una doppia vita. Così tutto quello che nel reale a cui rimanda ci parla di una sconfitta, della solitudine o della paura ci ritorna nello stesso tempo - in quanto parte del film - come il suo opposto. Se Film Blu è un film sulla tristezza ed il suo alfabeto, non è un film triste. Certo, un film forte.
La Francia accoglie un altro autore imponendogli le sue regole e le sue star con naturalezza, come ha fatto con molti altri autori. E Kieslowski ricambia con questo primo episodio di una trilogia già prevenduta in molti Paesi. Tema centrale: il contrasto tra libertà e amore, dice Kieslowski, anticipando che lui sceglierà sempre l'amore. Ma sono parole, dichiarazioni d'intenti, interviste di lancio. Certo, se i film parlassero tra loro, se ci fosse un dialogo sotterraneo che li lega e lega i loro personaggi si potrebbe pensare che la Binoche ha trovato la forma e la spiegazione di quella frase che Leos Carax le indirizza nel suo Mauvais sang: "Per sempre e mai". Può darsi che lei troverà un altro amore. Che - scoperto, abitato come se fosse un'isola in capo al mondo il lato invivibile della paura di essere soli - sia pronta per non esserlo mai più. O per sempre.
È una donna profondamente cambiata, quella che lasciamo alla fine di Film Blu. Non si porterebbe più con sé quell'unico oggetto fatto di scaglie colorate che l'ha seguita da una casa all'altra. Ha lasciato alle spalle tutte le certezze. Finalmente può intravvedere se stessa.
[Paolo Taggi - SegnoCinema n. 64]
Tre colori - Film Bianco
Titolo originale: Trois couleurs: Blanc
Regia: Krzysztof Kieślowski
Soggetto: Krzysztof Kieślowski, Krzysztof Piesiewicz
Sceneggiatura: Krzysztof Kieślowski, Krzysztof Piesiewicz
Fotografia: Edward Kłosiński
Montaggio: Urszula Lesiak
Musiche: Zbigniew Preisner
Scenografia: Halina Dobrowolska
Interpreti e personaggi: Zbigniew Zamachowski (Karol Karol), Julie Delpy (Dominique), Janusz Gajos (Mikolaj), Jerzy Stuhr (Jurek), Aleksander Bardini (L'avvocato), Barbara Dziekan (Cassiera), Cezary Harasimowicz (Ispettore), Michel Lisowsky (Interprete), Piotr Machalika (Uomo alto), Philippe Morier Genoud (Giudice), Jerzy Nowak (Il vecchio agricoltore), Cezary Pazura (Proprietario), Jerzy Trela (Sig. Bronek), Marzena Trybala (Impiegata da Mariott), Grzegorz Warchol (L'elegante)
Produzione: Francia - Polonia - Svizzera, 1994
Durata: 91 min
Karol Karol, polacco sposato con la francese Dominique, viene portato in Tribunale dalla consorte per una causa di divorzio. Motivazione: il matrimonio non è stato consumato. Con la carta di credito bloccata e con la valigia dallo scarso contenuto si ritrova in strada. Qui viene raggiunto da un individuo che gli propone di farlo rimpatriare clandestinamente se ucciderà un uomo che non vuole più vivere ma non ha il coraggio di suicidarsi. Una volta in Polonia la sua vita cambierà in modo radicale ...
Orso d'argento a Berlino per la regia.
Krzysztof Kieslowski affronta il secondo dei colori simbolo della Rivoluzione francese concentrando la sua attenzione su un protagonista maschile che segue la Julie di Film blu e precede la Valentine di Film rosso. Il suo nome è già evocativo del taglio narrativo che il regista intende dare al film: Karol ribadito anche nel cognome. Questo è l’appellativo con cui è conosciuto Charlot in Polonia. Siamo quindi di fronte a un film in cui predomina l’humour il quale però più che bianco è definibile come fondamentalmente nero.
Innumerevoli sono le letture che si possono dare a quest’opera che ha al proprio centro l’uguaglianza dopo aver affrontato la libertà e in attesa della fraternità. Quella che è stata meno valorizzata, per un film che a torto è stato spesso ritenuto più debole degli altri due, è la lettura socio-politica. Non va dimenticato che nella filmografia del Maestro polacco si trovano numerosi documentari sul regime comunista che subirono anche pesanti censure. Ora che il regime era caduto questo film avrebbe dovuto sancire un felice ritratto della Polonia. Kieslowski girà invece una vicenda che si basa sull’uguaglianza ma si tratta non di una parificazione a un livello più elevato bensì infimo. Nella Polonia che ritrae si può ottenere qualsiasi cosa: anche un cadavere proveniente dall’estero.
È sufficiente avere denaro. Non è difficile realizzare profitti se non ci pongono troppi vincoli morali e la ‘potenza’ nasce da un connubio tra desiderio e dominio. È una lettura decisamente amara e disincantata da parte di un artista che non provava certo sentimenti di nostalgia nei confronti del comunismo ma che leggeva nella società che lo circondava i segnali di un liberismo devastante sul piano etico. Se in una scena vediamo Julie entrare per errore nell’aula del Tribunale (creando così una staffetta con il film precedente) ciò che lega le tre opere come un trait d’union esplicito, ma mai sufficientemente sottolineato, è un altro elemento. In Film blu una persona cercava con fatica di infilare una bottiglia di vetro nel contenitore da marciapiede per il riciclaggio (la cosiddetta campana). Julie, troppo presa da se stessa non se ne accorgeva neppure.
Qui, di notte e dopo aver perso tutto, Karol osserva un uomo con il bastone che tenta la stessa operazione riuscendovi solo a metà ma non interviene. Quell’uomo è ‘impotente’ come lui e in questo risiede, purtroppo, la loro ‘uguaglianza’. Ma c’è ancora spazio per la fraternità di Film rosso.
[Giancarlo Zappoli - Mymovies]