Introduzione

CICLO TRUFFAUT / ANTOINE DOINEL

E’ un caso unico nel cinema mondiale, quello di accompagnare un personaggio, affidandolo sempre allo stesso attore (Jean-Pierre Léaud), dalla prima adolescenza al primo amore (Antoine e Colette), al matrimonio ed altre avventure (Baci rubati e Domicile conjugal), fino a una maturità in cui l’amore “fugge”. Vedendo questi film in progressione nella completezza del ciclo, si capirà anche meglio come l’autobiografismo, forte senza dubbio al principio, si attenui cammin facendo e, in altri termini, come sempre meno si tratti di Truffaut e sempre più del suo ‘alter ego’, indipendente da lui.

 

Il personaggio di Antoine Doinel è sempre lì che corre, sempre in ritardo, ha sempre tanta fretta : la fuga, per lui, va presa in tutti i sensi :fuga dall’attimo presente, sempre proiettato nel futuro, sempre ansioso (mai contento!), mai tranquillo; ma anche nel senso dell’amore che fugge … e anche la fuga in treno; si può cercare di fuggire dai propri guai, ma ti vengono dietro e ti perseguitano, ecc. C’è la fuga dal disegnatore … la prospettiva … fuga … Ma forse le donne sono magiche? Antoine dovrebbe smettere … di fuggire … saper cogliere il presente … smetterla di regolare i suoi conti con la madre attraverso tutte le ragazze che incontra …

[estratto da una lettera ad Alain Souchon – da Autoritratto di François Truffaut, ed. Einaudi]

 

Questa breve presentazione si chiude con uno scritto di Truffaut che costituisce la prefazione al libro “The Book of The Cinema” (tradotto in italiano con “Il piacere degli occhi” – Marsilio Editore).

 

 

Le persone che, alla fine del diciannovesimo secolo, hanno inventato la cinematografia non si sono rese subito conto che avrebbero sconvolto la nostra vita quotidiana, eppure i primi nastri registrati assomigliano, per il loro carattere strettamente informativo e documentario, a quella che, a partire dagli anni 50, sarebbe diventata la televisione. Creato inizialmente per riprodurre la realtà, il cinema è diventato grande ogni volta che è riuscito a superare tale realtà pur appoggiandosi su di essa, ogni volta che ha potuto rendere plausibili avvenimenti strani o esseri bizzarri, stabilendo in tal modo gli elementi di una mitologia in immagini. Da questo punto di vista, i primi cinquant’anni della storia del cinema sono stati di una ricchezza prodigiosa. Oggi è ben difficile per un “mostro” dello schermo rivaleggiare con Nosferatu, Frankenstein o King Kong, come per un ballerino è impossibile essere più aggraziato di Fred Astaire, per una vamp più enigmatica e pericolosa di Marlene Dietrich, per un comico più inventivo e divertente di Charlie Chaplin. Dopo alcune titubanze, il cinema sonoro ha trovato la sua strada realizzando i remake dei film muti e oggi si girano a colori i remake dei film in bianco e nero. Ad ogni tappa, però, ad ogni progresso tecnico, ad ogni nuova invenzione, il cinema perde in poesia quello che guadagna in intelligenza, perde in mistero quello che guadagna in realismo. Il suono stereofonico, lo schermo gigante, le vibrazioni sonore avvertite direttamente sulle poltrone o i tentativi di rilievo possono aiutare l’industria a vivere, a sopravvivere, ma niente di tutto questo aiuterà il cinema a restare un’arte. L’arte cinematografica non può esistere che attraverso un tradimento ben organizzato della realtà. Tutti i grandi registi dicono No a qualcosa. Ad esempio, nei film di Federico Fellini, c’è il rifiuto degli esterni reali, il rifiuto della musica di accompagnamento nei film di Ingmar Bergman, il rifiuto di utilizzare attori professionisti in Robert Bresson, il rifiuto delle scene documentarie in Hitchcock.

Se. Ottantacinque anni dopo la sua invenzione, esiste ancora il cinema, è grazie alla sola cosa di cui non troverete traccia in questo magnifico libro: una buona sceneggiatura, una buona storia raccontata con precisione ed inventiva. Con precisione, perché, in un film, è necessario chiarire e classificare tutte le informazioni per mantenere vivo l’interesse dello spettatore; con inventiva, perché è importante creare fantasia per dare piacere al pubblico. Spero che l’uso della parola Piacere non scandalizzerà il lettore. Buster Keaton, Ernst Lubitsch, Howard Hawks hanno meditato e lavorato più duramente di molti loro colleghi, sempre con l’obiettivo di dare maggiore piacere. Oggi, nelle Università, si insegna cinema come si insegnano letteratura o scienze. Può essere una buona cosa, a condizione che i professori non portino i loro allievi a preferire la secchezza del documentario alla fantasia della finzione, la teoria all’istinto. Non dimentichiamo mai che le idee sono meno interessanti degli esseri umani che le inventano, le modificano, le perfezionano o le tradiscono. Certi professori, giornalisti o semplici osservatori, a volte hanno l’ambizione di esser loro a decidere cosa è culturale e cosa non lo è, e potete essere certi che metteranno Louisiana Story[1] nella prima categoria, Stanlio e Olio nella seconda. Io credo fermamente, invece, che si debba rifiutare qualsiasi gerarchia di generi, e considerare che culturale è semplicemente tutto ciò che ci piace; ci distrae, ci interessa, ci aiuta a vivere. André Bazin ha scritto: “Tutti i film nascono liberi e uguali”. Jean Renoir, il regista più sensuale che esista e che non amava le macchine, non si stancava di citare questa frase di Pascal: “Ciò che interessa l’uomo è l’uomo” …

Guardandolo si capisce che il cinema dà il meglio di sé ogni volta che il regista-uomo riesce a piegare la macchina al suo desiderio e. in questo caso, farci entrare ne suo sogno.



[1] Un film documentario del 1948 girato da Robert Flaherty per la compagnia petrolifera Standard Oil